Con i Lettori Editoriale

Archeologia Viva n. 177 – maggio/giugno 2016

di Piero Pruneti

Ricordo bene quel subacqueo “pentito”, di nome Cecè Paladino, che, spontaneamente, si presentò al convegno di archeologia subacquea organizzato nel giugno del 1984 a Favignana dall’Ente per il Turismo di Trapani per il tramite di Giulia D’Angelo. Cecè, quasi scusandosi – ma non troppo – per quanto aveva fatto, annunciò che presso l’isola di Levanzo, negli anni del dopoguerra aveva recuperato e rivenduto il piombo di circa centocinquanta ancore romane, ritrovate tutte belle distese in un fondale dietro Capo Grosso. Da sempre la battaglia delle Egadi, che di fatto pose fine alla prima guerra punica, era rimasta un evento citato dagli storici antichi senza alcun riscontro. Tantomeno si sapeva dove realmente si fosse svolta. Ricordo anche la retorica del mio professore di storia: i Romani, forti sulla terraferma ma inesperti di navigazione, espressero tutto il loro destino di grandezza allestendo una flotta e battendo all’arcipelago delle Egadi la superpotenza marittima dell’epoca… Quella battaglia era un mito per tutti, antichi e moderni, anche se ora la ricostruzione dell’evento ci dice che alla vittoria dei Romani contribuì non poco il vento girato a favore. Comunque, si doveva credere a Cecè? Se davvero tutte quelle ancore si trovavano concentrate in un solo braccio di mare, ciò significava una cosa sola, che il comandante di un grande numero di unità navali aveva dato un ordine preciso: salpare all’istante e tutti insieme recidendo gli ancoraggi con un colpo d’ascia.

L’archeologo Sebastiano Tusa credette a Cecé e su questa ipotesi impostò le proprie ricerche, in particolare quando fu a capo della Soprintendenza siciliana del Mare. Così, poco a poco, uno alla volta, gli stessi fondali di Levanzo, dopo le ancore (rubate) hanno restituito i rostri (ora esposti nella bella mostra in corso a Favignana), indiscutibilmente appartenuti a navi da guerra… L’esito consolidato di questa appassionante vicenda dell’archeologia italiana lo potete leggere su questo numero, scritto dal suo stesso protagonista.

Piero Pruneti
direttore di “Archeologia Viva”