Ercole contro Vesta Vicende di un tempio millenario

Archeologia Viva n. 22 – settembre 1991
pp. 24-31

di Maria Grazia Filetici e Judith Lange

Il tempio di Ercole Olivario sulle rive del Tevere a Roma è stato per secoli identificato come un tempio di Vesta anche se una lunga tradizione mitologica ricorda la presenza e le eroiche gesta di Ercole stesso nel Lazio antico

Il piccolo tempio rotondo che sorge sotto i muraglioni del Tevere, ai piedi del colle Aventino a Roma, è conosciuto nella memoria cittadina come “Tempio di Vesta” e questo a dispetto del suo vero nome: Tempio di Ercole Olivario.

Tra le varie definizioni perpetuatesi nei secoli – Tempio di Ercole Vincitore, di Ercole Olivario, di Vesta, Chiesa di Santo Stefano alle Carrozze, di Santa Maria del Sole – la dedica alle Vestali, il noto collegio sacerdotale femminile dell’antica Roma, è quella che più di ogni altra ha alimentato la fantasia dei romani e dei visitatori. L’architetto Giuliano di Sangallo ad esempio disegnò nel codice detto barberiniano la pianta e il prospetto di questo tempio, chiamandolo “delle vergini”.

Prima di lui, gli umanisti Flavio Biondo e Poggio Bracciolini, studiosi delle vestigia di Roma antica, lo avevano segnalato come Vestae templum. In seguito le immagini di Dosio (seconda metà del XVI secolo) e di Coussin (primi del XIX secolo), le celebri stampe del Piranesi, le rappresentazioni di pittori e miniaturisti di Roma antica e infine, dalla fine del secolo scorso in poi, anche l’opera degli innumerevoli fotografi continuarono a indicarlo unanimemente come il “Tempio di Vesta”.

Eppure è certa e provata l’appartenenza a Ercole di questo santuario, unico esempio di edificio sacro in marmo greco sopravvissuto a Roma, tanto che non mancano le leggende. Secondo il mito infatti sui prati di questa riva – quando il Tevere si chiamava ancora Albula e il colle Aventino era coperto da una fitta boscaglia – avrebbe sostato il semidio Ercole in persona, provniente dalla Spagna e reduce dalla sua decima fatica, dopo essersi impadronito della mandria dei buoi di Gerione.

Qui l’eroe sarebbe stato accolto dal re Evandro, il parricida esule dell’Arcadia, fondatore di Pallanzio, che in seguito sarebbe diventato il colle Palatino. La leggenda è diffusamente illustrata anche dall’Eneide di Virgilio. Il riposo del mitico eroe non fu però tranquillo; un mandriano mostruoso con tre teste, il gigante Caco figlio di Efesto e Medusa, una notte gli rubò le bestie più pregiate della mandria in suo possesso e le nascose in una grotta dell’Aventino.

Ercole reagì come era nella sua natura e, scovato il gigante rapinatore, lo massacrò a bastonate. Si riprese quindi i suoi tori e insieme a Evandro li sacrificò agli dei sull’ara massima. Ercole tuttavia prima di riprendere il proprio viaggio verso l’Ellade, avrebbe lasciato in Lazio altri segni del suo passaggio.

Insegnò quindi a Evandro ad abolire i sacrifici umani fino ad allora in vigore – due uomini infatti venivano gettati ogni anno nel Tevere come tributo a Crono – uccise l’insidioso re etrusco Fauno e, almeno secondo Plutarco, avrebbe addirittura impartito lezioni di alfabeto allo stesso Evandro.

Queste almeno erano le leggende imbastite dai Romani e perpetuate dalle fonti letterarie intorno alla figura mitologica di Ercole a Roma, presenza che alimentava una sconfinata venerazione per l’eroe. […]