Antiche navi: croce e delizia di archeologi e restauratori Dallo scavo al restauro

Antiche navi: croce e delizia di archeologi e restauratori

Archeologia Viva n. 167 – settembre/ottobre 2014
pp. 16-27

di Maurizio Bizziccari, Rubens D’Oriano, Giovanni Gallo, Francesco Tiboni e  Sebastiano Tusa

La storia dell’archeologia subacquea è scandita dal recupero di relitti navali e altri manufatti in legno che una volta riportati in luce richiedono un lungo e costoso processo conservativo dai risultati finora instabili e discutibili

Il caso di un metodo di trattamento tutto italiano che finalmente sembra aprire un futuro sostenibile al restauro e alla musealizzazione delle navi antiche

Di archeologia subacquea in Italia si comincia a parlare nel 1950, quando l’archeologo Nino Lamboglia, nei fondali di Albenga (Sv), esplorò uno dei relitti antichi più grandi mai rinvenuti: una nave oneraria di epoca romana lunga quaranta metri e larga dieci, con un carico stimato di diecimila anfore.

L’impresa ebbe una vasta eco, nonostante l’inadeguatezza dei mezzi di allora (e l’uso sconsiderato di una benna per recuperare i reperti). Quello che è rimasto dello scafo rimane sepolto sul fondo a 42 metri.

Sempre Lamboglia, nel 1958, con il Centro sperimentale di Archeologia sottomarina di Albenga da lui fondato, condusse le prime indagini sistematiche sul relitto di Spargi, nell’arcipelago della Maddalena in Sardegna, anche questo di un’oneraria del I sec. a.C., individuato dal giornalista Gianni Roghi su una secca a 18 metri di profondità.

A Spargi per la prima volta si applicarono le metodologie che rivoluzionarono la documentazione archeologica subacquea: rilievo con quadrettatura e fotomosaico.

Gran parte del carico fu comunque depredato da subacquei clandestini… Non esisteva ancora la figura dell’archeologo subacqueo e l’archeologia ufficiale iniziava appena ad aprire gli occhi: non si era a conoscenza dell’enorme quantità di testimonianze da recuperare, studiare, restaurare e musealizzare o, in alternativa, da lasciare (con adeguata tutela) in fondo al mare.

Purtroppo, nonostante l’indubbia evoluzione della disciplina, ancora oggi manca in Italia un sistema organizzato per la ricerca e la gestione dei beni culturali sommersi (la sola inversione di tendenza che si può segnalare è la creazione della Soprintendenza del Mare in Sicilia nel 2004).

Le soprintendenze fanno quello che possono (con mezzi quasi inesistenti), ma ognuna fa per sé, manca un coordinamento… C’è poi un problema, pesante sotto il profilo tecnico ed economico: come conservare il legno bagnato, ovvero i reperti lignei mantenutisi per secoli in ambiente umido, dai singoli manufatti a interi relitti navali. […]