Archeologia Viva n. 195 – maggio/giugno 2019
pp. 40-51
di Joachim Weidig; in collaborazione con Benedetta Ficcadenti, Denise Galuzzi, Massimiliano Gasperini e Valentina Turtù
La riscoperta del sito archeologico più importante per la definizione della cultura dei Piceni sta procedendo tra ricerca archivistica ricontestualizzazione dei reperti già noti e nuovi scavi nell’area che agli inizi del secolo scorso restituì una quantità incredibile di tesori andati in gran parte dispersi
Belmonte Piceno è un piccolo comune della provincia di Fermo, seicento abitanti e un centro medievale in posizione panoramica – come suggerisce il nome – tra le valli dei fiumi Tenna ed Ete Vivo, sugli ultimi contrafforti dell’Appennino marchigiano, una trentina di chilometri dalla costa adriatica.
Quando si parla di Belmonte Piceno si pensa subito agli straordinari corredi ritrovati nelle sepolture preromane del VI sec. a.C., riportate in luce fra il 1909 e il 1911 in località Colle Ete dall’allora soprintendente Innocenzo Dall’Osso, in seguito ai ritrovamenti effettuati dall’attento studioso belmontese Silvestro Baglioni (1876-1957) insieme al colono Pietro Tofoni, che lavorava nei campi delle proprietà Curi e Malvatani.
Famosi in tutto il mondo sono le tre grandi fibule con nucleo d’ambra raffiguranti un leone, una leonessa e una pantera, i due pendagli in osso a forma di figura femminile alata (la dea Cupra) e, soprattutto, le due anse di bronzo che raffigurano un guerriero oplita con due cavalli affiancati, ormai noto come “signore dei cavalli” e simbolo emblematico di tutta la cultura picena nell’immaginario moderno. […]