Con i Lettori Editoriale

Archeologia Viva n. 164 – marzo/aprile 2014

di Piero Pruneti

Sempre più si parla dell’opportunità di mandare in trasferta i capolavori dei musei italiani. O meglio, di continuare a mandarli, perché da tempo le nostre opere più famose vanno a spasso per il mondo. A eccezione dei Bronzi di Riace, per lo spostamento dei quali i soprintendenti della Calabria hanno sempre opposto – finora – un netto rifiuto, stante il precario stato di salute dei due eroi (dall’esterno sembrano in ottima forma, ma dentro non sono troppo ben messi).

Ma, al di là dei rischi che ogni trasferimento comporta, è giusto mandare le opere in esposizione temporanea all’estero? Ce le chiedono in tanti, con un pressing non indifferente a tutti i livelli e forse è il momento di riflettere.

Tutto dipende dagli obiettivi che ci proponiamo, il cui raggiungimento non può essere dato per scontato. Un museo presta la sua opera migliore per rimpinguare il bilancio? Va bene, visti i chiari di luna… Ma allora si faccia pagare una cifra adeguata e che tenga conto dei conseguenti mancati introiti da biglietteria.

Si manda un’opera in trasferta per fare pubblicità alla località di residenza? Questo è molto discutibile. È clamoroso il caso dell’Efebo di Mozia, opera di grande richiamo per una visita al ricco Museo Whitaker dell’isola (come il Satiro lo è per Mazara del Vallo, i Bronzi di Riace per Reggio Calabria, il Frontone di Talamone per Orbetello e via dicendo): nei due anni in cui l’Efebo ha più volte attraversato gli oceani, quasi nessuno è andato a visitare Mozia e il suo museo ha perso entrate per duecentomila euro!

C’è anche chi obietta che esistono capolavori in luoghi sperduti dove recarsi è un’avventura, come la Dea di Morgantina al Museo di Aidone in provincia di Enna, che sarebbe meglio ridare al Getty Museum (che l’aveva acquisita “incautamente” da chi ce l’aveva rubata) dove era sempre in mezzo alla folla… Io sono dell’idea che ognuno stia bene nel suo contesto, nella sua terra, fra la sua gente. Insomma, a casa propria, anche quando è una povera casa.

Piero Pruneti
direttore di “Archeologia Viva”