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Ricordando Michel Serres… L'intervista al grande filosofo

Non proprio burbero, di certo drastico, dal fare un po’ sbrigativo: poco in linea, pensammo noi, coi tempi e i modi della filosofia con la quale invece si destreggiava come solo i grandi sanno fare. L’intervista che rilasciò ad Archeologia Viva fu una conferma di quello che esprimeva lo sguardo: ironico, potente e vigile sul mondo di oggi e il pensiero di ieri. Quindici anni dopo ricordiamo Michel Serres (scomparso il 1 giugno ad 88 anni) riproponendovi l’esito di un incontro tutto speciale.

L’uomo e il suo rapporto con la natura, le altre culture, l’universale. Si può sintetizzare così il tema dell’incontro di questo numero con il filosofo Michel Serres, occasionalmente in Italia dopo oltre dieci anni di assenza, ospite dell’Istituto francese di Firenze.

Con un percorso di ricerca alle spalle di quasi mezzo secolo condensato in ben trentasette volumi, il lavoro di Serres si è avviato nel 1969, con il primo libro Passaggio di Nord-Ovest, il cui titolo non può non condurci verso la recente opera del suo collega e amico Giacomo Marramao, Passaggio a Occidente(2003), di cui abbiano parlato in AV n. 104. Indirizzatosi più di recente verso la ricerca antropologica, biologica e sociologica, nelle ultime pubblicazioni come Hominescence (2001) e L’incandescent (2003), il pensatore francese affronta temi che si aprono non solo allo “scavo” sulle origini, ma anche alla piena attualità del nostro tempo, nel tentativo di analizzare l’odierna svolta dell’umanizzazione.

Nato a Parigi nel 1930 dopo essere stato a lungo docente di Storia della scienza a Parigi, Serres insegna oggi negli Usa alla Stanford University. Dal 1991 siede tra gli accademici di Francia.

D: Il suo primo libro, Passaggio di Nord-Ovest,  e l’ultimo di Giacomo Marramao, Passaggio a Occidente: oltre dopo trent’anni dal suo primo “passaggio”, inteso anche come transizione, cambiamento, sviluppo, questo tema ancora attualissimo pare assumere tuttavia significati molto diversi. E allora, in cosa è diverso il suo “passaggio” da quello del professor Marramao?

R: Il libro dell’amico Marramao affronta il tema del “passaggio” dal punto di vista della filosofia politica, come transito di tutte le culture, anche di quella occidentale, verso la ricchezza delle loro differenze. Per comprendere il significato del mio “passaggio” bisogna invece calarsi in un’altra dimensione: quella che ha a che vedere con la filosofia della scienza.

Passaggio di Nord-Ovest è una felice metafora che indica il difficile e tortuoso transito dalle scienze naturali a quelle umane. Quel tentativo cioè di costruire una nuova cultura dello scambio che unisca insieme le scienze, le arti, le leggi e le religioni in un nuova alleanza tra uomini, natura e scienza.

D: Di tempo ne è passato da quando auspicava questo “passaggio”. Siamo comunque in grado di indicare quale rapporto sussista tra le scienze umane e quelle esatte?

R: Tutt’oggi non ci possiamo ritenere completamente soddisfatti. Ancora il sistema dell’università tende ad attuare una separazione tra le scienze che, in alcuni casi, arrivano a ignorarsi del tutto. Partendo da questo presupposto non c’è poi da sorprendersi se gli uomini politici, gli esperti di diritto, gli storici non arrivano a cogliere le sfide scientifiche dell’ambito in cui lavorano; e allo stesso tempo gli scienziati, i fisici, i matematici non comprendono gli obiettivi, le preoccupazioni degli uomini di economia, ad esempio.

D’altra parte ci sono da rilevare dati molto positivi rispetto a trent’anni fa, perché si sono verificati “passaggi” importanti tra i diversi ambiti di ricerca. Adesso le scienze umane chiedono aiuto a quelle esatte per la datazione della storia; a loro volta le scienze esatte tengono conto della storia, del passaggio cronologico, dei fenomeni temporali nelle loro valutazioni di carattere strettamente scientifico. Negli ultimi cinquant’anni le scienze sperimentali hanno raddoppiato le loro attività “storiche”. Così l’astronomia si è messa a datare i pianeti, la geofisica a datare le rocce, la biologia a datare le specie.

È possibile oggi conoscere l’età della terra, quella delle varie specie viventi, la loro evoluzione e in quale momento esse hanno assunto la forma che conosciamo. Abbiamo la possibilità di narrare la nascita e la storia del nostro ambiente, dell’universo, del pianeta, delle specie di flora e fauna nel contesto che io definisco il Grand Récit: un ‘grande racconto’ capace di diffondere una cultura in armonia tra i saperi, senza più cesure, compartimenti stagni, verso un “Nuovo Umanesimo” che acceda all’universale.

D: Di nuovo un “passaggio” dunque, questa volta verso quello che lei definisce ambiziosamente “Nuovo Umanesimo”… Non è un po’ pericoloso andare a toccare un concetto così fondamentale e fondante per la società occidentale? Da cosa nasce questa necessità?

R: L’Umanesimo prende origine, come tutti sanno, dall'”urgenza” posta da alcuni filosofi di rispondere a due quesiti fondamentali: che cos’è l’uomo e dove va. Montaigne, Rabelais, Erasmo dedicarono una vita intera a cercar di rispondere a interrogativi come questi, sorti spontaneamente dopo la lunga parentesi medievale. È tuttavia in seguito alla scoperta dell’America nel XVI secolo che il bisogno di dare una risposta a queste domande diviene sempre più impellente. La ragione è chiara: la scoperta del Nuovo Mondo, quasi un pianeta a sé stante, mette gli occidentali davanti ad altre culture, diverse da quelle europee.

Avviene così l’incontro-scontro tra le civiltà che conoscono il greco, il latino, l’egiziano, l’aramaico e le civiltà “incognite” del Nuovo Mondo. Le nuove culture testimoniano altri usi, leggi, costumi, religioni. All’improvviso una domanda nasce spontanea: ci sono più uomini o ce n’è uno solo? Ecco il vero interrogativo del Rinascimento. Del resto Erodoto la domanda se l’era posta molto tempo fa, nel V sec. a.C., quando improvvisamente si era trovato di fronte ai barbaroi, a coloro che erano ‘balbettanti’, appunto’ incapaci di farsi capire’.

Come si poteva definire la cultura sciita o quella egiziana di fronte alla civiltà greca? Erodoto, prima, e i rinascimentali, poi, non fecero altro che reagire allo stupore tipico di chi si trova davanti allo straniero che non comprende. Quando cioè ridefinire l’uomo e il suo status diventa un problema centrale. Ecco perché a mio avviso l’epoca del mondo globalizzato che stiamo attraversando, contrassegnata da un contatto ravvicinato e quotidiano, mediatico ma anche fisico, tra culture che in realtà sono molto distanti tra loro, tra costumi e mentalità diversissime, impone un ripensamento del concetto stesso di Umanesimo. Se da una parte educare al rispetto della differenza diviene un dovere, dall’altra bisogna riprendere atto dell’insuccesso dell’idea di Umanesimo inteso alla vecchia maniera. Non si può continuare a definire l’Uomo con riferimenti culturali che sono solo nostri. È necessario moltiplicare le coordinate culturali, integrarle con la totalità delle altre culture.

D: Nel corso della sua vita di studi, molte volte ha posto l’accento sulla necessità di costruire una nuova cultura della comunicazione, dove le scienze, le arti, le leggi vengano messe in relazione tra loro, ma anche alla portata di quelli che finora ne sono rimasti esclusi. A questo proposito che ruolo pensa che possano svolgere le reti di comunicazione cosiddette globali?

R: Siamo ancora lontani  dal comprendere quali saranno le reali conseguenze dell’avvento di queste nuove forme di “contatto”. Non penso tuttavia di sbagliare affermando che la portata rivoluzionaria della nascita di internet può essere paragonata senza dubbio a quella che nel XVI secolo ebbe l’introduzione della stampa. Così come al tempo di Guttemberg la cultura poté finalmente uscire dai soli luoghi deputati, quali erano i monasteri o le scuole religiose, oggi l’avvento della “rete” decreta la fine di un’epoca caratterizzata dalla concentrazione del sapere.

Fino a oggi ognuno di noi per potersi formare culturalmente doveva superare non una, ma parecchie distanze: fra il proprio luogo di nascita, di partenza, e il luogo dove si trovavano concentrati i saperi come biblioteche, università, laboratori, musei. Alla distanza spaziale andava ad aggiungersi quella sociale se non si era nati nella classe giusta, quella linguistica se i nostri genitori non parlavano il linguaggio adeguato, oltre a quella finanziaria, sempre paurosamente condizionante.

La novità nel mondo di oggi è che la persona non si sposta più, ma il sapere arriva alla persona, in casa sua. Da una società di ritenzione dell’informazione siamo passati a un sistema di massima diffusione. Ora il sapere va dappertutto e ciò rappresenta, tra l’altro, una speranza molto grande di democrazia.

D: È una visione molto interessante, ma non si rischia di essere troppo ottimisti? In fondo, l’accessibilità a questi canali non è così scontata per tutti…

R: Sono un’ottimista di natura. Tuttavia è vero: per il momento di questa avanzata tecnologica stanno approfittando soprattutto i ricchi, come accade sempre. E non può essere altrimenti. Gli Americani cercheranno di mantenere la priorità, creando server sempre più potenti ad esempio, ma per quanto riguarda noi europei  che siamo più democratici, più repubblicani, più “condivisori”, l’avvento di tutto ciò potrà aiutarci a far molto anche per gli altri.

L’idea del resto era già stata colta negli anni Settanta dalla famosa pedagoga francese Claire Hébert-Suffrin che, all’epoca senza computer, era riuscita a creare una rete di “scambi di sapere” mettendo in rapporto alcune persone, in grado di poter scambiare le loro conoscenze in fatto di lingue, di riparazioni di motorini, di fisica nucleare, di tutto, ma escludendo completamente l’idea di denaro. Il motto era: «L’esperienza di ognuno è il tesoro di tutti». Nell’arco di pochi mesi divenne una rete di venticinquemila persone estesa all’Europa intera. Claire aveva avuto una grande intuizione di ciò che è il sapere: condivisione, gratuità, scambio, spazio. Se noi mettiamo tutto ciò sul computer questo diventerà la vera università del futuro.

D: Diffusione dell’informazione, democratizzazione delle fonti, gratuità… Tutte caratteristiche che paiono stridere non poco con i concetti di capitalismo, concorrenza, selezione con cui siamo abituati a fare i conti ogni giorno. Com’è possibile conciliare due tendenze apparentemente così opposte?

R: L’economia è fondata sullo scambio, che a sua volta si basa sulla rarità. Lei ha due euro, io ne ho zero; se lei me li cede io avrò i due euro e lei non ne avrà. È un gioco a somma nulla. ecco, il sapere ha esattamente la struttura inversa. Se lei conosce il teorema di Pitagora e io no potrebbe trasmettermene la conoscenza, io apprenderei una cosa nuova e al tempo stesso lei la conserverebbe. Non è un gioco a somma nulla. Il sapere è il luogo della non-rarità, è l’opposto dell’economia.

È vero che si è sempre classificato il sapere come una rarità economica, ma chi vi dice che oggi riparare un motorino sia meno interessante che conoscere la meccanica quantistica? Certamente molti non sono d’accordo e faranno di tutto affinché il sapere resti legato al privilegio e al merito. Credo tuttavia che una volta che l’informazione comincia a circolare, non potrà più esserci rarità, da nessuna parte. Il sapere non sarà più in determinati luoghi e spazi che la società protegge, sarà un oceano, un volume nel quale la società s’immerge. Nascerà un nuovo modo di apprendere il sapere non più basato sulla deduzione o sulla memoria; l’informazione diventerà un luogo dove passeggiare. Ed è un processo inevitabile, già abbondantemente in atto.

D: In teoria sembra quasi un processo spontaneo, naturale, inevitabile… Nella realtà le cose vanno sempre in maniera un po’ diversa…

R: Non sono del tutto d’accordo. Migliaia di anni fa gli uomini comunicavano solo oralmente, poi da quando appare la scrittura il mondo si trasforma, si stabilisce una trasmissione, nascono contratti giusti, scambi stabili, istituzioni; della scrittura non si può più fare a meno. Tempo dopo segue l’invenzione della stampa e da quel momento i secoli precedenti ci appaiono illeggibili, diventano “le tenebre del Medioevo”. Ecco, secondo me l’uomo, proprio come gli animali – anzi molto più degli animali – possiede enormi capacità di adattamento ai mutamenti dell’ambiente. E come l’animale reagisce modificandosi nel fisico, l’uomo è mutando la sua cultura, anzi le sue culture, che riesce ad affrontare le trasformazioni e le nuove sfide del mondo in cui vive. È solo partendo da questo presupposto che sarà possibile continuare a sperare in un mondo sempre giovane, sempre aperto al futuro.

Intervista di Giulia e Piero Pruneti
Da: Archeologia Viva n. 106 (luglio/agosto 2004)