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Emergenza Cultura Essere archeologo al tempo del Covid

15 maggio 2020


Pubblichiamo un intervento di Francesco D’Andria sulle condizioni di lavoro degli archeologi professionisti, a cui seguono i commenti di Daniele Manacorda e di Alessandro Garrisi: i primi due sono fra gli archeologi più noti e autorevoli nel panorama europeo e mediterraneo, il terzo è presidente della principale associazione italiana dei professionisti dell’archeologia.


Francesco D’Andria

Mentre la sciagura del virus cinese devastava le nostre comunità e svuotava le cento città d’Italia, un dramma silenzioso era vissuto, nell’indifferenza generale, da una speciale categoria di professionisti.
Persone che si sono formate nelle nostre Università, Facoltà di beni culturali, Scuole di specializzazione e che operano, nell’ambito dell’Archeologia preventiva, all’interno dei cantieri legati alle grandi opere di trasformazione del territorio e alla creazione delle reti di sottoservizi, assunti dalle società appaltatrici dei lavori come Italgas, Acea, Tim…
Di concerto con gli uffici delle Soprintendenze, questi professionisti svolgono un impegnativo lavoro di “sorveglianza archeologica”, per identificare e così permettere di tutelare i reperti che le attività di scavo portano alla luce.
Un’opera di grande rilievo culturale che ha permesso/permette di salvare dalla distruzione una infinita quantità di testimonianze: basti citare le scoperte nel sottosuolo di Roma avvenute nel corso dello scavo della metropolitana o, per restare nella mia regione, la Puglia, lo scavo delle tombe messapiche a Manduria.

La piaga del precariato 
Questi professionisti rappresentano una percentuale consistente degli archeologi attivi in Italia: si calcola che essi siano circa 5000, così distribuiti: 400 circa nel MiBACT, 371 nelle università e 86 negli istituti del Cnr.
I liberi professionisti sono perciò la maggioranza e superano di parecchio le 4000 unità, con una netta prevalenza femminile, organizzati in associazioni come ANA (Associazione Nazionale Archeologi), Archeoimprese e altre, impegnate a difendere condizioni di lavoro caratterizzate da precariato e scarsità di garanzie retributive nei rapporti con la committenza.

Cantieri aperti ma senza protezioni (né garanzie lavorative)
Queste condizioni, già discutibili, sono diventate drammatiche per il Covid-19: i vari decreti Conte hanno consentito ai cantieri di continuare le attività, ma le condizioni di lavoro in gran parte sono prive di sicurezza; inoltre l’impossibilità per i funzionari delle Soprintendenze (costretti al lavoro agile come altri impiegati statali) di un controllo sulle decisioni da prendere per la tutela dei ritrovamenti ha creato continui intoppi e a volte impossibilità di continuare.
In alcuni casi il mancato arrivo dei materiali ha portato alla chiusura dei cantieri, in altri casi gli archeologi sono stati costretti a rinunciare e si sono ritrovati senza lavoro: molti ex-allievi mi hanno fatto conoscere il loro disagio. Nei cantieri TAP (Trans Adriatic Pipeline), ad esempio, squadre di operai specializzati provenienti dalle regioni settentrionali hanno rappresentato un ulteriore fattore di rischio.
Una situazione drammatica, che anche le Consulte degli archeologi universitari insieme alle Associazioni hanno denunciato al MiBACT, con richieste a cui è seguito un assordante silenzio.

La “professione invisibile”
Rita Paris, già direttore del Parco archeologico dell’Appia Antica, in un intervento su Emergenza Cultura ha richiamato l’attenzione sulla “professione invisibile” di questi operatori, garanti dell’archeologia in Italia, rimasti senza lavoro o costretti a operare in cantieri senza norme di difesa dal morbo cinese.
Ma la loro situazione è scandalosa anche in tempi normali! Lavorano “a chiamata” e spesso sono costretti ad accettare, dalle ditte sub-appaltatrici, compensi ben inferiori (di molto!) alle tabelle sindacali, per periodi anche molto brevi. Insomma una vera giungla di relazioni umane e lavorative, un vero “caporalato d’élite”, così lo definisce la stessa Paris.
E per chi, come me, ha dedicato una vita a formare i nuovi archeologi è un grande dolore vedere in che modo, a parte quelli che sono riusciti a inserirsi nelle Università e nelle Soprintendenze, gli altri, altrettanto validi, siano costretti a tali umilianti condizioni di lavoro.

Il danno peggiore? Aver  smontato le Soprintendenze archeologiche
Purtroppo questa realtà si inserisce in un generale quadro di decadenza dell’archeologia italiana, colpita in modo irreparabile dalla Riforma del ministro Franceschini, fatta passare con una norma di delega nella Finanziaria del 2016, che ha portato all’abolizione delle Soprintendenze archeologiche e all’origine di un guazzabuglio di sedi.
Cambi di nome senza prevedere strutture e nuove professionalità, come è avvenuto nel 2016, con l’istituzione dell’Istituto centrale per l’archeologia, poi lasciato, privo di mezzi, ad appesantire la pletora di uffici e direzioni generali del MiBACT.

E pensare che eravamo un esempio per tutti
Fa rabbia pensare che l’Italia era all’avanguardia nella tutela dei beni archeologici e che potevamo vantarci di una ineguagliabile tradizione risalente ai papi del Cinquecento, addirittura a Raffaello (incaricato da Leone X per il patrimonio archeologico di Roma).
I colleghi francesi ci invidiavano questo primato! Oggi in Francia i professionisti archeologi (più di 2200 unità) sono assunti in organico nell’INRAP (Istituto Nazionale Ricerche di Archeologia Preventiva) che, con 44 centri di ricerca, opera accanto alle Università e al Ministero della Cultura, può contare su un budget annuo di 160 milioni di euro e dispone di una struttura di laboratori e biblioteche che assicura anche lo studio e la pubblicazione dei reperti. Tutto questo in un Paese con un patrimonio archeologico infinitamente meno rilevante del nostro!

Francesco D’Andria
professore emerito di Archeologia Classica Università del Salento

Daniele Manacorda

La denuncia di Francesco D’Andria del difficile momento attraversati dalla grande maggioranza degli archeologi professionisti non può non essere condivisa.
A una situazione già gravida di problemi, assai ben illustrati, si aggiungono le difficoltà prodotte dall’emergenza attuale, che ha colpito la gestione dei cantieri edili in tutto il Paese, e quindi anche di quelli che prevedono la presenza di archeologi qualificati a tutela del patrimonio.
Le Associazioni di categoria, rappresentative di circa 4000 lavoratori, e il mondo delle Università, dove gli archeologi professionisti si sono formati, ne sono ben consapevoli e non hanno mai fatto mancare la loro voce a sostegno di un miglioramento delle condizioni di lavoro, contrattuali e operative. Giusto dunque l’invito di D’Andria a non lasciarli soli.

Ma non è per colpa della Riforma…
Tuttavia, non vedo in tutto questo che cosa c’entri il richiamo – che sembra ormai diventato per alcuni una sorta di riflesso condizionato – alle riforme degli anni passati. Il «generale quadro di decadenza dell’archeologia» che D’Andria descrive, ammesso e non concesso che esista, non ha nulla a che vedere con quei provvedimenti, che hanno avuto semmai il merito di allestire finalmente (con tutte le difficoltà del caso, più volte rilevate in un dibattito che è stato assai ampio in questi anni) un’organizzazione della tutela del patrimonio culturale italiano di carattere contestuale e non angustamente disciplinare, con vantaggi per il patrimonio stesso e per il rapporto fra cittadini e Pubblica amministrazione.

Ora finalmente c’è sinergia 
Le Soprintendenze archeologiche non sono state “abolite”: la salvaguardia del Patrimonio archeologico avviene ora, con pari e probabilmente maggiore efficacia, nell’ambito di Soprintendenze dove tutti i diversi saperi (archeologia, arte, architettura, paesaggio…) finalmente concorrono alla programmazione e alla conduzione degli interventi di tutela.
A mio giudizio, si tratta di un passo avanti epocale, che permetterà alla nostra Amministrazione di sostenere con maggiore efficacia le sfide della tutela nel XXI secolo.
Ma ognuno naturalmente può pensarla come vuole.

Urge alleggerire la macchina statale 
Bene fa D’Andria a richiamare l’esempio della Francia, dove migliaia di archeologi professionisti operano per conto di un istituto pubblico, l’INRAP, in numerosi centri di ricerca, in stretto rapporto con il  Ministero della Cultura e le Università. Qui in Italia un ateneo, per condurre attività di scavo, deve ancora ricorrere alla infausta arcaica trafila della “concessione”, come fosse un corpo estraneo alla gestione della conoscenza e della tutela del nostro patrimonio archeologico. Più che indugiare a chiedere un ritorno al passato, D’Andria e tanti altri colleghi di grande autorevolezza ed esperienza potrebbero unirsi alle richieste di chi auspica un sistema della tutela più aperto e integrato, dove tutti gli operatori siano chiamati a fare la loro parte. Occorre, questo sì, rinnovare una macchina statale burocratica e pesante, e metterla in condizione di individuare i suoi interlocutori e migliori alleati proprio nelle aule delle Università e dei Centri di ricerca e nella stessa società civile. Oggi sempre più, non solo le diverse istituzioni culturali, ma  migliaia di cittadini vorrebbero sentirsi partecipi di questa grande attività di conoscenza, tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale italiano, compreso quello archeologico, che sta a cuore a tutti noi.

Daniele Manacorda
già ordinario di Metodologia della ricerca archeologica

Alessandro Garrisi

Tra le categorie professionali del settore “cultura”, quella degli archeologi è forse una tra le più organizzate, con associazioni di categoria vere e veramente pronte a intervenire a favore dei lavoratori. Nel tempo questa professione è molto cambiata, sebbene lo strumento che universalmente identifica il mestiere dell’archeologo sia ancora quella piccola cazzuola appuntita che gli inglesi hanno chiamato trowel: oggi quello strumento è solo uno dei tanti che un professionista deve tenere a portata di mano. Ormai da anni la professione dell’archeologo ha assunto sfaccettature molto diverse e articolate: una poliedricità che riflette la multiforme composizione dei contesti nei quali ci si trova a operare.

Il covid non ha colpito tutti allo stesso modo
Insieme al cantiere ci sono uffici di vario genere e livello territoriale, con una casistica ampia: Soprintendenze, Musei, società che fanno innovazione sulla valorizzazione, professionisti che dedicano alle consulenze la maggior parte del proprio tempo, valutazioni di interesse archeologico ecc… Per questo al concretizzarsi dell’emergenza sanitaria gli effetti sui professionisti delle misure di contenimento decise dal governo non sono stati uniformi.

La supervisione dei cantieri è di “vitale” importanza 
Fin dall’inizio l’ANA, Associazione Nazionale Archeologi, ha calibrato ogni propria azione mettendo al centro la sicurezza dei lavoratori. Lo abbiamo fatto fin dal 30 di gennaio, quando iniziammo – soli – a chiedere per alcune categorie di lavoratori l’utilizzo (e quindi la fornitura da parte del datore di lavoro) di dispositivi di protezione individuali adeguati alla minaccia che si profilava. Al netto di alcune critiche anche piuttosto accese – che a distanza di mesi appaiono profondamente dissonanti – oggi sappiamo che non ci sbagliavamo sulle richieste, che di fatto sono state poi accolte da tutte le autorità pubbliche ancor prima di stabilire la chiusura delle attività. I problemi per gli archeologi impiegati sui cantieri sono però iniziati soprattutto dopo il 9 marzo, quando alcune attività cantieristiche sono state chiuse, mentre altre (considerate necessarie) hanno proseguito i lavori: l’ANA ha subito iniziato a ricevere segnalazioni da tutta Italia di cantieri non in sicurezza.

Tante domande (dal basso) senza risposte (dall’alto)
Un po’ tutte le sigle del settore, da sole o in gruppo, hanno preso posizione: un processo nel quale però sono emerse le distanze che separano i diversi pezzi della categoria. Il buon senso ha prevalso e posizioni comuni sono state stabilite e poi pubblicamente difese. Purtroppo non sempre il MiBACT ha risposto in maniera convincente: la richiesta di intervento da parte dell’ANA e della Federazione delle Consulte Universitarie di Archeologia ha ricevuto una risposta, firmata dal capo di gabinetto Casini, che ai più è apparsa non esaustiva.

Non c’è molto da rimpiangere del passato
In questa situazione alcune figure importanti dell’archeologia italiana, provenienti soprattutto dal mondo accademico e ministeriale, sono intervenute nel dibattito non sempre centrando i problemi nella maniera corretta.
Tirare in ballo, ad esempio, le riforme del ministro Franceschini del sistema italiano dei Beni culturali sembra francamente fuori luogo, col rischio peraltro di indebolire alcune condivisibili proposte di modifica sulle quali spesso anche i promotori di quelle riforme concordano. L’emergenza sanitaria ha posto problemi di tutela molto concreti come l’impossibilità per i funzionari di intervenire sul campo per esercitare le funzioni di controllo: ma questo non ha nulla a che vedere con le riforme degli anni passati. E mentre le associazioni di categoria provano a stimolare una discussione sul futuro della disciplina, tornare a dibattere di riforme del Ministero sembra surreale.

Ricordiamoci che “prima” ognuno poteva definirsi archeologo
Il rischio è che nella foga del confronto ci si ritrovi su posizioni di retroguardia, che guardano a un passato a volte dipinto come un’età dell’oro che forse non è mai esistita: se si osservano con attenzione le possibilità di regolamentazione del settore offerte nel presente dalla Legge 110 del 2014, che trova attuazione col recente DM 244 del 2019, si noterà come esse configurino spazi di pertinenza dell’archeologia come mai prima erano stati delimitati, all’interno dei quali i lavoratori trovano protezione attraverso mansioni chiare e suddivise in base a competenze e formazione.
Quando si rimpiange il passato, quando si descrive il sistema di tutela italiano precedente come quello attraverso il quale l’Italia esprimeva le migliori forme di tutela possibili al mondo, è inevitabile ricordare che quella tutela si reggeva anche sulle spalle di figure professionali prive di qualsiasi riconoscimento formale (archeologo poteva definirsi praticamente chiunque), talvolta sfruttate attraverso forme di lavoro “fantasiose”, lusingate da promesse di futuri radiosi da conquistare a prezzo di obbedienza a volte padronale…
Anche questo non avrebbe nulla a che fare con le riforme di Franceschini, ma per una serie di motivi che qui sarebbe lungo elencare, proprio quelle riforme rendono complessivamente la vita (professionale) più facile a quell’ottanta per cento circa di archeologi (fonte II Censimento ANA) che non lavorano nel Ministero o nelle Università: in gran parte cioè liberi professionisti e società di diritto privato.

Una nuova solidarietà per affrontare la ripresa
Crediamo che l’Italia continui a essere all’avanguardia quanto a tutela delle proprie eredità culturali, di cui il Patrimonio archeologico fa parte, ma restano diversi steccati da abbattere per consentire a tutti gli archeologi di godere della stessa erba e dissetarsi alla stessa fonte. Tra le sfide da raccogliere alla luce delle criticità emerse durante l’emergenza sanitaria, c’è quella di rinforzare all’interno della categoria quel sentimento di “solidarietà professionale” che deve consentirci di focalizzare l’attenzione sugli obiettivi comuni prima ancora che sulle differenze che ci caratterizzano; di comprendere che le esigenze del lavoro devono coniugarsi con quelle della formazione, della tutela, della valorizzazione, senza ordini gerarchici ma considerando i singoli elementi nel contesto del sistema che li contiene.
Perché nei mutamenti che coinvolgono l’archeologia possiamo scegliere di rappresentare le nostre rispettive individualità professionali, e probabilmente soccombere di fronte alla forza dei cambiamenti, oppure agire nel rispetto delle esigenze individuali tentando però di governare il cambiamento partendo da forme di consapevolezza collettiva.

Alessandro Garrisi
presidente ANA – Associazione Nazionale Archeologi