Un neandertaliano col raffreddore Scienze per l'archeologia

Archeologia Viva n. 1 – settembre/ottobre 1988
pp. 10-11

di Luigi Capasso

Quale impatto ambientale subirebbe un uomo preistorico che per qualche attimo tornasse fra noi?

La paleobiologia – scienza che studia le antiche forme di vita – non lascia dubbi: il malcapitato cugino resisterebbe solo per pochi giorni

Se un neandertaliano giungesse fra noi, improvvisamente trasportato dal suo al nostro tempo, avrebbe qualche possibilità di sopravvivere? O la nostra acqua potabile gli sarebbe rapidamente letale? Forse l’aria delle nostre città lo soffocherebbe ai primi respiri? E se sopravvivesse a questo primo elementare impatto, supererebbe la prova del cibo o le nostre mense lo ucciderebbero? Insomma, di che morirebbe se non di vecchiaia questo nostro antenato sinceramente sfortunato?

Non sappiamo quanto la nostra, ari, la nostra acqua, il nostro cibo – quindi il nostro habitat – siano realmente tossici per la salute dell’uomo (poco importa se sapiens sapiens o sapiens neandethalensis): ci manca la misura dell’effetto dannoso che l’impatto ambientale della tecnologia ha sulla nostra salute.

Sappiamo però per certo che questo effetto esiste e che esso è andato incrementandosi nel tempo; non sappiamo, invece, se, quando e a quale ritmo l’uomo ha messo in atto adeguamenti biologici idonei a migliorare l’adattamento della specie alle condizioni ambientali mutate sotto la pressione tecnologica. Certo è che i tempi biologici sono assai più lunghi di quelli tecnologici, inoltre, l’impatto ambientale delle applicazioni tecnologiche è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi secoli.
Complessivamente, l’habitat umano appare molto variato (anche chimicamente) negli ultimi millenni, tanto da rendere difficile pensare che un uomo di 40.000 anni fa riuscirebbe a sopravvivere a lungo in una nostra città.

A faccia a faccia con i nostri virus

Per la verità ci son buone ragioni per credere che il malcapitato antenato possa sopravvivere soltanto qualche giorno al fianco del suo cugino moderno. Invece che con mammuth e orsi delle caverne egli si troverebbe faccia a faccia con esseri assai più piccoli ma molto più pericolosi: i virus influenzali, il virus del raffreddore, quello del morbillo, il micribatterio tubercolare e centinaia di altri agenti di malattie a lui sconosciuti.

Infatti, questi microrganismi hanno fatto la loro comparsa sulla terra solo in tempi molto recenti. Ad esempio, il morbillo era completamente sconosciuto a Ippocrate (VI sec. a.C.) e probabilmente il virus che ne è oggi la causa fece la sua comparsa durante il primo millennio come derivazione del virus del vaiolo.

La tubercolosi fu malattia originariamente bovina, e solo quando l’uomo iniziò ad allevare questi animali a scopo alimentare si crearono le condizioni per un passaggio ripetuto del bacillo della tubercolosi bovina all’uomo. Nacque così la tubercolosi umana che è documentata a partire dal Neolitico e della quale non si hanno tracce prima dell’avvento dell’allevamento bovino o in aeree geografiche ove i bovini non furono mai allevati, come in America.

Selezione dei soggetti resistenti

Nel nostro mondo attuale molti agenti di malattia sono endemici, cioè sono vastamente diffusi: esistono portatori sani che, pur non sviluppando la malattia, consentono la circolazione del suo agente e con molti virus e batteri la maggioranza della popolazione contrae rapporti già in età molto giovane, duntante l’infanzia.

Soggetti che non sono mai stati a contatto con questi agenti di malattia si trovano in una condizione biologica sfavorevole (la stessa in cui si troverebbe il neandertaliano della nostra invenzione).La nostra storia biologica, anche quella relativamente recente, dimostra la grande importanza che simili meccanismi di trasmissione delle malattie hanno avuto nel segnare il cammino dell’umanità.

Ogni qualvolta una popolazione nella quale è endemica una data malattia infettiva si incontra con una popolazione per la quale quella malattia è sconosciuta, la malattia endemica nella prima popolazione diventa epidemica nella seconda.

Ciò provoca gravi epidemie che si sviluppano sino a quando la malattia in questione non ha operato sulla nuova popolazione una selezione di soggetti resistenti (o perché geneticamente più resistenti o perché guariti).

Un esempio del genere è dato dalla tubercolosi, la quale era completamente sconosciuta nel Nuovo Continente prima del contatto con gli europei (Vichinghi prima, Spagnoli poi). Dutante le campagne spagnole di conquista dell’America centrale e meridionale le popolazioni indigene vennero per la prima volta a contatto con il microbtterio della tubercolosi e di ciò morirono molte migliaia di persone.

La tubercolosi, assiene al vaiolo, ebbe così un ruolo importante nel facilitare la penetrazione dei conqistatori europei nel Nuovo Continente. Esempi simili sono ricorrenti nella storia dell’umanitàe dimostrano che popolazioni isolate, oggi come milioni di anni fa, svilupparono patologie particolari.

Al momento del contatto si assiste a un rimescolamento: sul piano antropologico si hanno matrimoni crociati e la comparsa si ibridi genetici; su quello patologico si hanno vaste mortalità per malttie nuove e si verifica una selezione massiva e rapida delle popolazioni sensibili. […]