Con i Lettori Editoriale

Archeologia Viva n. 207 – maggio/giugno 2021
di Piero Pruneti

Fra gli articoli che pubblichiamo, rigorosamente redatti – com’è prassi della nostra rivista – dai responsabili scientifici delle operazioni di cui si parla, mi sembra opportuno soffermarmi sul fascino che rivestono le ricerche in Corasmia. Confesso l’ignoranza: prima che l’autore Michele Minardi ci proponesse l’argomento io la Corasmia non sapevo neanche che esistesse.

Ora questa terra antica dell’Asia centrale, fatta di steppa e deserto ma attraversata da un fiume, l’Amudarja/Oxus, anch’esso di antica memoria e capace di alimentare una civiltà, ci svela i suoi segreti grazie alle indagini della missione karakalpako-australiana, nome ostico al primo impatto, derivante da quello del Karakalpakstan, in Uzbekistan, dove si svolgono le ricerche. Queste stanno restituendo concretezza d’immagine alla fase più antica dello Zoroastrismo, grande religione della Persia sasanide ma con una diffusione molto più antica e ancora praticata da residue comunità.

L’eccezionalità delle scoperte che AV presenta in esclusiva direi che si riassume nella coloratissima immagine, forse di divinità, con cui apriamo l’articolo di Minardi, conservatasi su un frammento d’intonaco riemerso dalla sabbia che per secoli ha custodito il complesso regale di Akchakhan-kala. È la prima volta che sacerdoti e divinità della religione di Zarathustra ci mostrano il loro volto.

E poi le “torri del silenzio”. Definizione impressionante come la consuetudine a cui si riferiscono, che era quella di esporvi i cadaveri, fonte d’impurità, fino alla loro consunzione naturale, soprattutto a opera degli uccelli rapaci, e poterne poi deporre le ossa scarnificate nei vicini ossuari. La Corasmia ci ha restituito la più antica “torre del silenzio” sul solitario colle di Chilpyk, sospeso in mezzo al deserto e in vista del grande fiume che scorre in lontananza, oggi impoverito di acque per i prelievi lungo il suo corso e incapace di alimentare più la foce nel lago d’Aral. Questo era chiamato “mare” per la sua vastità e oggi è uno stagno. Ma… è una storia del nostro tempo.

Piero Pruneti
direttore di “Archeologia Viva”