Con i Lettori Editoriale

Archeologia Viva n. 158 – marzo/aprile 2013

di Piero Pruneti

Gli indiani mississippiani, ovvero i gruppi di nativi americani che occupavano l’immenso bacino del Mississippi-Missouri, da svariati decenni sono oggetto d’indagini archeologiche.

Non occorre sottolineare quanto il metodo archeologico sia fondamentale per ricostruire la dimensione di una civiltà sepolta che non possedeva la scrittura. In particolare, negli Stati Uniti, è il modo più corretto per capire il mondo andato distrutto con la colonizzazione.

Per i tempi storici è un mondo recente, che in parte sanguina ancora, con i problemi di emarginazione- integrazione-perdita d’identità che le residue comunità di nativi stanno vivendo.

Sono tematiche che in Italia vengono trattate poco (salvo il benemerito convegno di Americanistica che da trentacinque anni si tiene a Perugia) e, nel caso, nell’ottica coccodrillesca del “poveri indiani che fine hanno fatto…, però non potevano pretendere un continente per le loro cacce al bisonte…”.

Ora, più onestamente si cerca di salvare la memoria di una civiltà americana anch’essa stratificata nei secoli, per niente uniforme e statica come ci ha suggerito una produzione letteraria e cinematografica quasi tutta concentrata sul momento della “conquista del West”.

Sorprende allora, nei pressi dell’attuale St. Louis, il sito di Cahokia, una “capitale” indiana attiva fra l’XI e il XIV secolo, dove le ricerche – a cui partecipa un’équipe dell’Università di Bologna diretta da Davide Domenici, autore dell’articolo che pubblichiamo – continuano a rivelarci un vero e proprio centro urbano strutturato in settori abitativi, settori monumentali di uso pubblico per cerimonie e attività ludiche e settori cimiteriali.

È un’immagine che amplia a dismisura l’idea del villaggio indiano fermo a livelli di cultura preistorica, a cui siamo da sempre abituati. Le civiltà negate sono perdenti anche nella possibilità di comunicarci quello che effettivamente furono. L’archeologia sta restituendo loro un barlume di giustizia.

Piero Pruneti
direttore di “Archeologia Viva”