Nel mare antico con Folco Quilici Il passato sommerso

Nel mare antico con Folco Quilici

Archeologia Viva n. 155 – settembre/ottobre 2012
pp. 12-21

di Folco Quilici

Un’intera esistenza trascorsa a documentare in splendidi filmati il rapporto fra l’uomo e il mare

Ecco dal suo ultimo libro alcune affascinanti puntate di una storia di incontri ravvicinati con l’archeologia in quella ineguagliabile culla di civiltà che fu il Mediterraneo antico

Nell’acqua torbida, il relitto agganciato dopo vari tentativi veniva finalmente recuperato. «Lo tiriamo fuori per non contaminare l’acqua e i pesci con la ruggine, se poi si corrompe anche la dinamo…», borbottò il vigile urbano in mezzo al gruppetto di spettatori (io tra quelli).

Il contaminante relitto a due ruote arrivò in superficie in un giorno del lontano 1936. Affacciati al muretto che separa la piazza del Comune dallo specchio liquido attorno al turrito Castello, i presenti applaudirono i vigili impegnati un paio di volte all’anno nella fatica di scandagliare con lunghe aste il fondo della fossa, dove cittadini sconsiderati si liberavano nottetempo di qualcosa d’ingombrante. Anche vecchie biciclette.

Quella carcassa fu il primo relitto finito sotto i miei occhi, senza immaginare quante decine d’ogni epoca avrei ammirato nei decenni successivi. Chiunque sente citare una nave affondata, sa immaginarsela, anche se non è mai stato sott’acqua. Film, programmi televisivi, reportage, libri ne offrono infinite visioni e descrizioni. Ma all’epoca eravamo in pochi ad aver vissuto quell’esperienza.

Nelle acque dell’isola di Ponza, poco dopo aver imparato a sommozzare, presi a immergermi nel fondale di ponente, sotto la cosiddetta Punta del Papa. Là giaceva un relitto di nave da trasporto della classe Liberty, una delle tante varate negli Stati Uniti per la seconda guerra mondiale.

Nel ‘44, mentre navigava nel Tirreno centrale, il suo equipaggio completamente ubriaco l’aveva fatta finire sulle rocce. Affondò velocemente, spezzandosi in due.

Una parte, a pochi metri dalla riva, non solo aveva reso possibile il salvataggio di molti marinai, ma consentiva a noi ragazzi muniti solo di maschera, pinne e buon fiato, di scendere sotto il pelo delle onde e gettare un’occhiata a un insieme d’elementi tragici e grandiosi: cupe ombre, luci guizzanti.

Nell’immensa carcassa scendevano in profondità palombari addetti al recupero del carico. Intravedevo appena alcuni momenti di quel paziente lavoro.

Nel caso della Liberty di Punta del Papa i camion riportati in superficie rappresentavano un buon bottino per la ditta di recuperi.

Immerso nei pochi metri consentiti alle mie ancora incerte apnee, mi ero accorto di due uomini che non erano impegnati nei recuperi: muniti di un’attrezzatura subacquea particolare, e con due forti lampade accese, illuminavano uno dei mezzi mentre i palombari lo imbragavano. I due indossavano tute di gomma e autorespiratori a ossigeno, i preziosi ARA impiegati nelle azioni di guerra di pochi anni prima. […]