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Ricordando Chiara Frugoni

13 aprile 2022


Ci ha lasciati Chiara Frugoni (4 febbraio 1940-10 aprile 2022) grande studiosa del Medioevo e di storia della Chiesa;  intellettuale animata da una passione, quella di comunicare lo spirito profondo di un’epoca, così come traspare dai testi, dai reperti e dalle immagini. In questa ricerca Chiara – lo stesso nome di una delle “sue” sante più studiate – aveva trovato una figura ideale di riferimento, Francesco d’Assisi, a cui ha dedicato una parte consistente della propria indagine storica. Ha insegnato Storia medievale, prima all’Università di Pisa, a Parigi, e poi a Roma Tor Vergata, fino al Duemila, quando ha rassegnato volontariamente le dimissioni per dedicarsi interamente alle sue ricerche e alle pubblicazioni. Riproponiamo qui la bella intervista che aveva rilasciato ad Archeologia Viva. Era membro del Comitato scientifico cosa che ci ha reso e ci renderà sempre molto onorati.


Archeologia Viva n. 187 – gennaio/febbraio 2018

INCONTRO CON CHIARA FRUGONI

Intervista di Giulia e Piero Pruneti

Uno dei caposaldi della sua “lettura del Medioevo” è che l’«immagine parla». Quali risultati di ricerca le hanno consentito di raggiungere questa che più che un’enunciazione sembra un metodo di lavoro? – Fin dalla mia tesi di laurea ho unito testi e immagini, considerandoli fonti di pari dignità. Come i testi, le immagini non parlano spontaneamente, bisogna saperle interrogare. Nel Medioevo molti gesti erano “in codice”. Ad esempio, un pugno stretto appoggiato alla guancia voleva dire disperazione, oppure tre dita alzate indicavano, prima di tutto, che il personaggio stesse parlando: l’Angelo davanti a Maria non la benedice, ma le annuncia la prossima nascita di Cristo… La gente nel Medioevo era abituata alle convenzioni delle immagini; noi le dobbiamo recuperare. Oggi un bambino capisce benissimo che il filo che esce dalla bocca di un personaggio dei fumetti non è un fil di fumo, ma bisogna saperlo. Le immagini ci svelano molti particolari che le fonti scritte non tramandano, ad esempio dettagli della vita quotidiana, ma anche messaggi, religiosi e politici. Gli stessi autori medievali notavano che l’immagine è “una predica muta”, che ha il grande vantaggio di non svanire nell’aria come la parola. La Chiesa non avrebbe speso tanto denaro nell’affrescare i suoi edifici se non avesse ritenuto che le immagini fossero un messaggio efficace.

Francesco d’Assisi è senz’altro la figura storica che lei ha studiato di più. Da quali motivazioni è nato questo interesse? – Francesco è stato un santo grandissimo, con una apertura mentale prodigiosa sui problemi del tempo, anche se le sue idee avevano sempre come fonte il Vangelo. Riconosco la mia ammirazione e il piacere di ascoltare le sue parole. Ma molte delle proposte di Francesco, sempre perfettamente ortodosse, erano molto difficili da accettare, proprio per la loro radicalità.
Seguirono il Santo, all’inizio, alcuni compagni, uomini di grandi virtù. Ma quando i frati si moltiplicarono, cominciarono le contestazioni perché la maggior parte voleva un addolcimento della Regola, che esigeva la totale povertà sia in proprio che in comune, il lavoro manuale, il divieto di essere mantenuti dai fedeli. Le biografie del Santo, anche ufficiali, dovettero continuare ad aggiornarne la figura al successo del francescanesimo e poi all’evoluzione dell’Ordine. Faccio solo un esempio. Nella prima biografia, il francescano Tommaso da Celano, che scrive per incarico di Gregorio IX, non può dimenticare la giovinezza di Francesco ancora viva nella memoria dei lettori, il suo essere stato amante delle feste e della vita. Lo descrive, prima della conversione, come un giovane vizioso traviato da genitori troppo condiscendenti.
Quindici anni dopo, il medesimo autore, in una seconda biografia, altrettanto ufficiale, scrive invece che Francesco era stato da sempre santo e che la madre era una seconda santa Elisabetta. Evidentemente, per Francesco, nel frattempo diventato così famoso, era imbarazzante ammettere un comportamento, se pure prima della conversione, tanto libero e “vivace”. Ma devo dire che per ciascun episodio della vita di Francesco si notano censure, contraddizioni, cambiamenti; per me, studiosa di storia, è di grande interesse cercare di spiegarne le ragioni, una sollecitazione continua.

Le istituzioni civili e religiose dell’epoca contrastarono l’opera di Francesco. Era così pericoloso un frate scalzo? – Non è stato proprio così. Già Innocenzo III, quando Francesco venne a Roma a presentargli la sua proposta di vita, pur reagendo con grande cautela, dette al futuro santo la possibilità di sviluppare il progetto. Le autorità che si susseguirono, sia all’interno dell’Ordine che all’esterno, vollero, nel tempo, aiutare e promuovere il successo dei francescani, dovendo però scontrarsi con Francesco e successivamente con un gruppo di frati che cercavano di portare avanti il suo progetto di vita, senza addolcimenti e modifiche rispetto ai primi intendimenti.
Va detto però che Francesco aveva pensato a una piccola fraternità e non a un grande ordine per cui, come è stato detto, la sua, fu “un’eredità difficile”. Francesco aveva proibito edifici in muratura. I frati dovevano abitare nei lebbrosari o in capanne di frasche. Ma se i frati erano nel frattempo diventati migliaia, com’era possibile seguire alla lettera questa prescrizione?

Da grande esperta del Medioevo, cosa ne pensa delle stimmate di Francesco? – A questo evento ho dedicato un libro intero. Per me è stato interessante studiare la percezione che del miracolo ebbero i contemporanei, non stabilire cosa successe sulla Verna. Francesco in vita non parlò mai della visione del Serafino (nella tradizione cristiana il gruppo di angeli più vicino a Dio – ndr); le biografie ufficiali che descrivono l’evento, da Tommaso da Celano a Bonaventura, che nel 1266 fece distruggere tutte le biografie precedenti imponendo la propria, l’unica ufficiale ammessa, raccontano l’episodio in modo diversissimo fra loro. E così le fonti iconografiche. Ci sono immagini che mostrano Francesco a colloquio con il Serafino, ma senza stimmate, e altre invece dove addirittura raggi luminosi guidano l’occhio dello spettatore alla comprensione delle ferite. Francesco, giunto quasi alla fine della vita, era malato e attraversava una grave crisi.
Molti frati non lo seguivano più e lui aveva dato le dimissioni dalla guida dell’Ordine. Secondo Tommaso da Celano l’episodio del Serafino ricalca quello di Cristo sul Monte degli Ulivi, in ansia per la passione imminente. Cristo alla fine accetta la volontà del Padre, si affida a lui. Francesco, cercando di capire la volontà divina, consulta il Vangelo che per l’appunto si apre sulla pagina del Monte degli Ulivi. Bonaventura ricopia il racconto, ma cambia la pagina del Vangelo, che invece si sarebbe aperto sul Golgota, su Cristo in croce. Dunque per Tommaso da Celano le stimmate significano che Francesco risolse la sua crisi accettando i patimenti spirituali che lo attendevano, rimettendosi alla volontà del Padre; per Bonaventura invece Francesco accetta i futuri patimenti fisici quasi sostituendosi a Cristo in croce, attraverso le varie ferite che di lì a poco si sarebbero prodotte nel suo corpo. C’è anche da aggiungere che fu Bonaventura ad accentuare moltissimo l’importanza delle stimmate nella vita di Francesco, facendo di lui, come lo stesso biografo dice, un santo da ammirare ma non da imitare. In questo modo Francesco veniva proposto all’ammirazione dei frati, ma non doveva essere preso a modello di vita, proprio per la sua santità eccelsa. I frati dovevano imitare invece altri santi francescani, grandi santi, ma meno problematici, come ad esempio Antonio da Padova.
Non è un caso che negli affreschi della Basilica superiore di Assisi chi “forma” sia sant’Antonio, che predica ai frati, non Francesco il quale, pur avendo passato la vita a predicare, nel ciclo che gli è dedicato non predica mai agli uomini. Predica solo agli uccelli e davanti a Onorio III, ma…, come spiega la sottostante scritta, si era dimenticato quello che voleva dire; solo lo Spirito santo lo aveva salvato: l’intervento divino non si poteva immaginare applicato su scala istituzionale. L
e stimmate dunque permisero a Bonaventura di mettere d’accordo la figura di Francesco, il suo progetto di vita, con l’evoluzione dell’ordine francescano, che aveva profondamente modificato gli intendimenti del Santo. Con il miracolo “mai concesso se non al Figlio dell’uomo” Bonaventura rese omaggio al fondatore e nello stesso tempo lo isolò come in una teca, perché nessun frate poteva seguire quello stile di vita. Francesco era stato un prototipo mandato, come Giovanni Battista, a preparare le vie del Signore. Di conseguenza i frati erano giustificati nell’apportare cambiamenti alla Regola, per adattarla a uomini “normali”.

È famosa la sua individuazione di un profilo di diavolo fra le nuvole in uno degli affreschi nella Basilica superiore di San Francesco ad Assisi. Perché questa “scoperta” è così importante? – Il diavolo, nella scena della morte di Francesco, la cui anima sta salendo al cielo, era lì da ottocento anni, e, una volta individuato, è visibile a occhio nudo. Ma nessuno se n’era accorto. Si credeva che il primo a dipingere un’immagine fatta di nuvola fosse stato il Mantegna con il san Sebastiano di Vienna. Però per me, fatta la scoperta, si è aperto il problema di giustificarla. Perché il diavolo è lì, perché è bello, e con gli occhi chiusi? La spiegazione dettagliata è nel mio libro Quale Francesco? Il messaggio nascosto negli affreschi della basilica superiore di Assisi (Einaudi 2015). Non posso qui documentare la risposta nei dettagli, ma dico che il diavolo è fra le nuvole perché, spiega Bonaventura, questo è il luogo dove abitano i demoni, che suscitano infatti le tempeste e che dal cielo scendono sulla terra con il loro corpo fittizio fatto di vapore – sono puri spiriti – per tentare gli uomini. All’inferno, dice sempre Bonaventura, andranno solo alla fine del mondo, quando non potranno più catturare alcuna preda. Il diavolo della mia scoperta credo sia Lucifero, l’angelo più bello, dopo la ribellione diventato cieco, dice Bonaventura, perché non poté più vedere Dio. Nella scena di fronte a quella della morte di Francesco, sulla parete opposta, si vede un frate davanti a un angelo che gli mostra in cielo i troni, vuoti dopo la ribellione degli angeli, e ora riservati ai francescani. Quello al centro, il più bello, che era per Lucifero, è destinato a Francesco, spiega sempre l’angelo. Dunque il diavolo nella nuvola che sta sotto all’ascesa di Francesco è Lucifero sconfitto. Francesco sta salendo al cielo e andrà a occuparne il trono vuoto. Per me è stato importante spiegare un ulteriore dettaglio del ciclo di Assisi, tanto denso e complicato.

I titoli dei suoi libri sono una vera provocazione alla curiosità del lettore. Ad esempio, cosa fu la «solitudine abitata» di Chiara d’Assisi? – Chiara è stata una grandissima santa, poco amata dalla maggior parte dei frati al suo tempo e poco amata oggi, perché tenacissima nel portare avanti il progetto di Francesco nella sua interezza originale. Ebbe la sfortuna di essere lasciata sola: sopravvisse a Francesco per ventisette anni, dovette lottare aspramente con i pontefici, prima Gregorio IX, poi Innocenzo IV. Frate Elia, per un certo tempo capo dei francescani e grande sostenitore di Chiara, cadde in disgrazia perché si era schierato dalla parte di Federico II e quindi non poté più esserle di aiuto. Chiara, adorata dalle consorelle, visse in solitudine ma con l’animo “abitato”, prima dal rapporto intenso con Francesco (non un amore sublimato ma una piena consonanza spirituale), poi dal ricordo dell’amico e maestro e infine dalla gioia di portare avanti il suo progetto con una fede lieta e sicura nel Signore.

In una intervista ad Antonio Gnoli su “La Repubblica” ha affermato: «Studio san Francesco e ho portato il cilicio, ma le suore sono state la mia scuola di laicismo». Cosa voleva dire? – Antonio Gnoli ha compendiato le mie parole in un linguaggio giornalistico efficace. Io ho avuto la sfortuna di frequentare durante le elementari suore ossessionate dall’idea del peccato, del diavolo, e del sesso: ci dicevano che era peccato mortale giocare con i bambini e ci richiedevano piccole e continue torture come il cilicio, spilli nella carne… per aiutare le anime del purgatorio. Io sono atea, ma devo dire che le mie convinzioni non dipendono da questi insegnamenti. Credere o non credere riguarda profonde riflessioni da adulta. I continui racconti di diavoli, di apparizioni di defunti o di eventi miracolosi mi hanno spinta però, fin da bambina, a essere molto dubbiosa nei riguardi di tali narrazioni, a non credere per devozione, ma a chiedermi chi potesse dimostrare che tali eventi fossero avvenuti, chi li avesse raccontati o testimoniati. In questo senso le suore sono state una scuola di laicismo, nel senso che hanno svegliato e potenziato il mio senso critico.

La sua ultima opera, Vivere nel Medioevo. Donne, uomini e soprattutto bambini, ci apre le porte del quotidiano per un’epoca che spesso studiamo come se fossero esistiti solo papi e imperatori. Ma perché… «soprattutto bambini»? – Questo libro è dedicato soprattutto ai bambini (sei capitoli su otto) perché, almeno in Italia, non mi pare che i bambini dell’epoca siano stati studiati facendo dialogare testi e immagini. Ho seguito la loro breve infanzia, gli sforzi che dovevano fare per sopravvivere (fasciati come mummie, scarsissima igiene, malattie, terribili superstizioni, finché erano piccolissimi, anche scarso affetto). Ma ho poi dedicato largo spazio ai giochi, quasi tutti all’aperto, con pochi giocattoli ma molto inventivi, notando la differenza fra bambini e bambine, praticamente prive di giocattoli. Le bambine, a meno che non fossero destinate al monastero, non andavano a scuola. Ma nel monastero, dove potevano entrare anche a quattro o cinque anni, se fossero state intelligenti e intraprendenti, avrebbero potuto realizzare in anticipo il sogno di Virginia Woolf. Diventate adulte avrebbero avuto “una stanza per sé”, una cella e i libri, studiare e realizzarsi, un vitto assicurato; non avrebbero dovuto subire violenze domestiche e, non dovendo sottoporsi ai pericoli del parto, avrebbero avuto una aspettativa di vita più lunga. Ho mostrato nel libro le opere bellissime fatte dalle monache (di solito le attribuiamo ai monaci), ad esempio i codici da loro trascritti e miniati, ma anche le loro composizioni: sermoni, trattati ed enciclopedie. L’ultimo capitolo è dedicato ai viaggi e in particolare a una guida duecentesca di Roma che si occupa solo delle opere dell’Antichità (monumenti e statue), spesso spiegandole con fantasiose leggende. Ma dobbiamo essere grati a una di queste perché ha salvato il Marco Aurelio del Campidoglio: il gruppo equestre non fu fuso nonostante il preziosissimo bronzo, perché l’imperatore fu creduto Costantino, che aveva concesso libertà di culto ai cristiani…