La ‘Venere’ di Morgantina: torna a casa un capolavoro dell’arte classica Grandi eventi

La Venere di Morgantina

Archeologia Viva n. 146 – marzo/aprile 2011
pp. 28-39

a cura di Serena Raffiotta

Aidone in festa per la restituzione della sua “Venere”

Un ritorno atteso da tempo che al di là dello straordinario valore dell’opera segna la più grande vittoria della legalità contro le logiche del traffico clandestino di beni archeologici

Quello della “Venere” di Morgantina sarà ricordato come il Grande Furto del ventesimo secolo. Mai collezionista pubblico o privato aveva sborsato ben 18 milioni di dollari per un manufatto dell’arte classica né aveva messo le mani su un tale capolavoro nel mercato delle antichità senza provenienza.

Specularmente, il suo recupero e la sua ricontestualizzazione costituiscono il più grande successo del nostro Paese nella lotta al traffico illegale, segnando un punto di svolta irreversibile nella politica degli acquisti dei musei stranieri.

La scoperta della statua è ancora avvolta nel mistero, così come la fase della sua esportazione in Svizzera, dove apparve dal nulla nel 1986 nelle mani di uno strano personaggio, un modesto tabaccaio di Lugano, un “collezionista”.

Renzo Canavesi, questo il suo nome, la vendette per 400 mila dollari al commerciante inglese Robin Symes il quale, imballatala in due casse, la trasferì nel suo negozio di antiquariato a Londra.

Dopo vani tentativi di collocarla presso le più note gallerie d’arte americane, Symes la offrì al J. Paul Getty Museum di Malibù, che volle avere le idee chiare sul quel colosso di due metri e quaranta per seicento chili di peso: fece periziare l’opera – con ancora abbondanti tracce di terra e radici tra le pieghe del panneggio – da esperti del proprio gabinetto di restauro, che la giudicarono autentica.

L’importazione a Malibù avvenne il 15 dicembre 1987 e l’acquisto perfezionato il 25 luglio dell’anno successivo, dopo che il museo era stato assicurato dal nostro Ministero dei Beni Culturali che la statua… non risultava trafugata dall’Italia.

Al momento dell’esposizione, preceduta da un accurato restauro per rimetterne insieme gli ottantasette frammenti, l’allora responsabile delle antichità del Getty Museum, Marion True, attribuì il capolavoro a un ignoto artista della Magna Grecia di fine V sec. a.C., ammettendo che si ignorava tutto sulla provenienza, eccetto il nome del collezionista che l’aveva ceduta a Symes.

Mancando di attributi che ne consentissero l’identificazione nell’Olimpo delle divinità femminili, in ragione delle forme abbondanti e della straordinaria bellezza del volto, l’opera fu battezzata come un’Afrodite. […]