Lavoratrici schiave prostitute… donne romane ai margini Parliamo di donne

Lavoratrici schiave prostitute. donne romane ai margini

Archeologia Viva n. 132 – novembre/dicembre 2008
pp. 74-75

di Francesca Cenerini

Accanto alla separazione dorata delle privilegiate matrone drammatica era la condizione delle moltitudini femminili in lotta per la sopravvivenza nei lavori più umili e degradanti

Il ruolo della donna ideale antica è fra le pareti domestiche, quale brava ed economa padrona e madre di numerosa prole legittima. Le uniche attività che la società (maschile) le concede rientrano in quest’ambito. In particolare, la tessitura: vera e propria icona della positività femminile. È un’immagine che tuttavia riguarda i ceti privilegiati.

Le donne greche e romane delle classi popolari lavorano – e molto – fuori dalle pareti domestiche: contadine, artigiane, operaie, specializzate o meno, venditrici ai mercati, profumiere, parrucchiere, massaggiatrici, guardarobiere, cameriere…

Sono categorie che trovano impiego anche presso le grandi famiglie della Roma tardorepubblicana e imperiale e, in particolare, nella domus dell’imperatore. In questi ultimi casi si tratta soprattutto di liberte e schiave.

L’attività lavorativa di queste donne, inserite in una precisa gerarchia a seconda delle funzioni, è documentata soprattutto nei columbaria, dove venivano sepolti domestici, schiavi e liberti delle familiae più in vista. Famosissimo è quello di Livia lungo la via Appia (monumentum Liviae, in uso nel I sec. d.C. dalla tarda età augustea ai tempi di Claudio).

Schiave del sesso: quando lavorare è un’infamia

Le attività commerciali e del terziario erano esercitate soprattutto da liberte. Nel caso di piccole imprenditrici, ad esempio titolari di laboratori tessili, è frequente la menzione sulla pietra tombale dell’attività svolta, quale segno distintivo rispetto alla massa delle altre donne lavoratrici.

Ma le cauponae, le vinariae, le popinariae, cioè ostesse, locandiere e bariste, esercitavano attività che le ponevano ai livelli più bassi della considerazione, tanto che il diritto romano equiparava le donne che lavoravano nei locali pubblici (comprese attrici, cantanti e ballerine) alle meretrices (prostitute). Erano quindi colpite da infamia e soggette a limitazioni giuridiche.

Le prostitute vere e proprie erano soprattutto schiave, importate dall’estero, o donne rapite, oppure trovatelle, raccolte e vendute a tenutari di lupanaria (postriboli)

Esistevano vari livelli di prostituzione (del resto come oggi): quella d’alto bordo, cioè il mondo delle cortigiane, greche o di origine orientale, esperte di musica, canto, danza e poesia, come la famosa Neera, nota dall’orazione dello Pseudo Demostene, o come Chelidone, nelle Verrine di Cicerone.

Famosa e denigrata fu la passione di Marco Antonio per la mima Licoride: Cicerone, ostile ad Antonio, dice che la trattava come una moglie e ne era infatuato al punto da regalarle fertili terreni in Campania. Antonio però, non esitò ad abbandonarla, attorno al 47 a.C., quando per lui si rese necessaria un’immagine più sobria.

Un rapporto analogo sarà quello fra Nerone e la liberta Atte. Questa ebbe in dono possedimenti in Gallura (Sardegna), denaro, schiavi. A Olbia è stato rinvenuto un suo ex voto per l’appassionato Nerone (studiato da Paola Ruggeri dell’Università di Sassari, che lo considera un ringraziamento per la salvezza dell’imperatore, scampato alla congiura dei Pisoni).

Essendo una ex schiava, Atte non poteva che essere concubina, fedele comunque all’imperatore fino alla morte, tanto che insieme a due nutrici si assume il compito di seppellirne il corpo. In ogni caso, per la mentalità maschile antica, una donna di facili costumi, una ex schiava, non avrebbe mai potuto sposare un aristocratico, come per altro impose la legislazione augustea.

Prostituirsi per sopravvivere
Ieri come oggi: un’esistenza di abusi e miseria
Le immagini da Pompei parlano chiaro della condizione della donna

In fondo alla scala sociale erano le prostitute, quelle a basso costo che si offrivano nei lupanari più degradati, negli angiporti, per strada.

A Roma ce n’erano tante nel quartiere della Suburra, tra il Quirinale e il Viminale.

La documentazione pompeiana ci dà un’idea della vita di queste donne e dei loro clienti. I graffiti sui muri di postriboli e strade riportano tariffe e prestazioni, anche a scopo pubblicitario. I prezzi vanno da due assi (il costo di un boccale di vino) fino a sedici.

La prostituta di strada viveva una condizione di assoluta marginalità, vittima della miseria, tra gli abusi dei clienti e la violenza degli sfruttatori, esposta a ogni sorta di malattie, destinata a un invecchiamento precoce, a morire giovane.

Si discute il caso di Asellina, barista di via dell’Abbondanza, firmataria di un manifesto elettorale dipinto sui muri del suo thermopolium (bar) in favore di certo Fusco, candidato a una carica cittadina. Firmano con lei altre tre donne, Maria, Zmyrina ed Egle, che si definiscono asellinae (schiave e bariste) e che, all’occorrenza, si prostituivano al piano superiore del locale.

Cose simili succedevano alle terme con il personale, maschile e femminile, addetto alla custodia dei vestiti. Non a caso, a Pompei è attesta una concentrazione di lupanari nelle adiacenze degli edifici termali.

Famoso è il lupanare nei pressi delle terme stabiane. Il piano terreno ha cinque celle, provviste di un letto in muratura su cui veniva posto un materasso; sul fondo è una piccola latrina, parzialmente nascosta da un muretto; le celle del piano superiore godevano di maggiore privacy: ogni cella è decorata da affreschi che illustrano le posizioni (figurae veneris) di piacevoli ragazzi e ragazze intenti a fare l’amore. Ma sono immagini ideali, in netto contrasto con il linguaggio volgare dei graffiti, che era invece lo specchio fedele di tante misere vite. […]