L’arte romana del trionfo Mostra al Colosseo

L’arte romana del trionfo

Archeologia Viva n. 130 – luglio/agosto 2008
pp. 20-29

di Fabrizio Paolucci

Le infinite vittorie che scandirono l’ampliarsi continuo dei confini e l’accumulo di enormi ricchezze trovarono un puntuale momento di riscontro nel corteo trionfale dei generali vittoriosi

L’incredibile cerimonia che nel tripudio popolare percorreva le vie e le piazze dell’Urbe si “bruciava” in un solo giorno ma per un romano di grandi ambizioni era il sogno dell’esistenza

Da oltre un secolo il trionfo romano ha costituito per scrittori, pittori e registi una fonte inesauribile di spunti. Questo grandioso rituale, nato da un’inestricabile fusione di religione, politica e spettacolo, sembrava incarnare nel modo migliore l’idea di maestà imperiale e implacabile ferocia militare che sta all’origine stessa del mito di Roma nella cultura dell’Occidente.

Dalle luminose tele di Alma-Tadema alle fosche scenografie di gusto hitleriano de Il Gladiatore, il trionfo è stato immaginato in forme e aspetti assai diversi che, invece di ispirarsi a oggettivi dati iconografici e storici, riflettevano il gusto dei creatori moderni.

Basti pensare alla scena dell’ingresso di Cleopatra a Roma nell’omonimo film di Mankiewicz del 1963: la grandiosa sfinge dorata, su cui siede la regina d’Egitto, trainata da legioni di schiavi non sarebbe mai potuta passare da nessuna delle strade dell’antica Roma e men che mai da un qualsivoglia arco di trionfo, poiché i fornici centrali di questi edifici raramente superavano i quattro metri.

Che dire poi del fatto che Cleopatra, greca di discendenza macedone, appaia vestita come un faraone e che sia la protagonista di un rituale, come quello del trionfo, inaccessibile alle donne? Ma il cinema di Hollywood, si sa, è nato per fare spettacolo e soldi. Queste cose le sa fare bene e gli bastano…

Cercare di restituire veridicità storica al trionfo, se da un lato significa rinunciare a queste fascinose ricostruzioni, dall’altro permette di apprezzare pienamente il ruolo che questa variopinta festa ebbe nelle vicende dell’antica Roma. In primo luogo è necessario ripercorrere la complessa normativa, lo ius triumphandi, che regolava questa scottante materia.

Solo i magistrati rivestiti di imperium, cioè del pieno potere conferitogli dal senato di reclutare e comandare un esercito, potevano aspirare a un trionfo. Inoltre, era obbligatorio che il futuro trionfatore avesse preso personalmente gli auspicia, cioè avesse presieduto ai rituali propiziatori, nel giorno della battaglia.

La guerra alla quale il comandante aveva partecipato doveva essere un bellum iustum, cioè una guerra dichiarata secondo il rituale tradizionale, e la vittoria doveva essere ottenuta con una battaglia cruenta e schiacciante (erano quindi escluse dal trionfo le vittorie diplomatiche o le rese incondizionate senza combattere): i nemici uccisi dovevano superare il numero di cinquemila, l’esercito doveva essere ricondotto in patria (deportatio exercitus) e si doveva dimostrare di aver ampliato i confini dello Stato.

Ovviamente il nemico sconfitto non poteva essere costituito da cittadini romani, un tabù questo infranto però da Cesare, che non esitò a trionfare nel 47 a.C. per le vittorie conseguite in Spagna durante la guerra civile. Soddisfatte tutte queste premesse, l’aspirante trionfatore poteva dare inizio a un iter burocratico il cui esito, specie nei momenti di maggiore conflittualità politica, era tutt’altro che scontato. […]