Incontro con Giovanni Impastato La voce della storia

Incontro con Giovanni Impastato

Archeologia Viva n. 129 – maggio/giugno 2008
pp. 74-75

Intervista di Giulia e Piero Pruneti

«Gli arresti di mafia sono necessari ma non risolvono il problema»

«È l’educazione alla legalità che fa la differenza»

«Il mondo cattolico è molto legato alla figura di Peppino Impastato ma ci sono preti che chiudono gli occhi»

«La nostra famiglia aveva rapporti di mafia e mio fratello fu il punto di rottura»

«Cominciò a morire quando ogni giorno faceva ridere il paese su Tano Badalamenti»

«Per poco ci riuscivano: il nemico della mafia doveva diventare un terrorista»

Giovanni arriva un po’ di fretta, scusandosi per il ritardo e con un vassoio di pasticcini. Di cognome fa Impastato e aveva un fratello che si chiamava Peppino.

Siamo a Cinisi. Un tempo il viale che parte alto dalla piazza del paese correva giù diritto fra gli agrumeti fino al mare; ora a metà è sbarrato dalla rete metallica dell’aeroporto “Falcone Bersellino”, che dagli anni Cinquanta ha tolto a Cinisi quasi tutto il litorale, punta Raisi inclusa.

Alle spalle dell’abitato rimane il monte Pecoraro, un gruppo dolomitico di straordinaria bellezza (una trappola per l’aereo di linea che nel 1972 vi si schiantò cercando la pista); in mezzo, fra il paese e la sua montagna, corre l’autostrada Palermo-Trapani… Questo era – in parte è – il magnifico territorio di Cinisi, benedetto da Dio e offeso dagli uomini con ampia partecipazione di interessi mafiosi.

Per l’intervista ci troviamo all’Hotel Magaggiari – i proprietari Maria Lia e Pietro Giannola hanno procurato l’incontro – alcune centinaia di metri dal luogo dove Peppino Impastato venne ucciso. L’occasione è quella della Rassegna del cinema del Mediterraneo antico, organizzata a Palazzo d’Aumale nella vicina Terrasini, buona per raccogliere un brano vivente di storia. Se di lotta alla mafia si deve parlare, quei pasticcini sono nel posto giusto.

Giovanni inizia raccontando della madre Felicia, «donna umile, ma tenace, sempre dalla parte di mio fratello». Anche prima di quel 9 maggio 1978 quando, appena trentenne, Peppino, prima massacrato poi messo sui binari della ferrovia, viene fatto esplodere. Stampa, forze dell’ordine, magistratura parlano di terrorismo (l’attentatore era saltato sul suo stesso esplosivo), in seguito di probabile suicidio… A distanza di poche ore, a Roma viene rinvenuto un altro corpo senza vita: quello di Aldo Moro, ucciso dai brigatisti, e nelle tormentate cronache dell’epoca la morte di Impastato finisce in secondo piano.

Grazie all’impegno del fratello e della madre l’inchiesta viene riaperta. Nel 1984, sulla base delle indicazioni lasciate dal magistrato Rocco Chinnici (ucciso con un’autobomba nel 1983 quand’era procuratore capo a Palermo, successore di Cesare Terranova, a sua volta assassinato…) il tribunale di Palermo emette una sentenza in cui si riconosce la matrice mafiosa del delitto, attribuito però a ignoti.

Insieme alla famiglia, anche il Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” (il primo centro studi sulla mafia sorto in Italia) indica come mandante Gaetano Badalamenti, detto Tano, il boss di Cinisi, nel frattempo condannato a quarantacinque anni per traffico di droga dalla corte di New York, ma il tribunale di Palermo (1992) decide ancora per l’archiviazione escludendo la possibilità di individuare i colpevoli.

Nel 1996, in seguito ad alcune dichiarazioni di pentiti, l’inchiesta per l’ennesima volta viene riaperta. Si arriva così al  marzo 2001, quando la Corte d’assise condanna Vito Palazzolo, braccio destro di Tano Badalamenti, a trent’anni di reclusione, e all’11 aprile 2002 con la condanna all’ergastolo dello stesso Badalamenti, che è già in carcere negli Stati Uniti e morirà due anni più tardi.

Oggi prosegue la lotta di Giovanni: la sua “vendetta” è l’affermazione della cultura della legalità, parlando ai giovani, nelle scuole, tra la gente. Anche a Cinisi, il paese che non ha lasciato. Nonostante tutto.

D: Il 9 maggio fanno trent’anni dall’omicidio di tuo fratello. Che cosa è cambiato a Cinisi e in Sicilia?

R: Sarebbe ingiusto dire che è tutto come prima. Ma a Cinisi non sono stati fatti molti passi avanti e la cultura dominante è ancora quella mafiosa. La nostra vecchia abitazione di famiglia è diventata “Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato” dove ha sede l’omonima associazione, ma la gente continua a vederci come quelli che vogliono gettare discredito sul paese.

Questo perché la mafia esiste diffusamente nella realtà sociale, nel modo di pensare. Poi, quando avvengono arresti eccellenti e si scoprono catene di collegamento tra il nostro territorio e uno dei più potenti capimafia come Salvatore Lo Piccolo, i fatti ci danno ragione.

Negli ultimi anni a livello regionale qualcosa di positivo però è successo. Ora si produce vino e grano nelle terre confiscate alla mafia e nella sola provincia di Palermo ci sono almeno duecento imprenditori che hanno puntato il dito contro chi chiede il pizzo. Trent’anni fa questo tipo di azione era impensabile.

D: Gli arresti eccellenti come quelli di Riina e Provenzano come hanno cambiato la mafia?

R: Gli arresti non risolvono il problema. A Palermo, in un quartiere come il Brancaccio, se arrestano trenta o quaranta persone ce ne sono altrettante pronte a sostituirle. La mafia si riproduce, Per cui è fondamentale lavorare sulla cultura mafiosa. Quando lotto contro la mafia è come lottassi contro me stesso. Contro il mio modo di pensare e agire. Non siamo tutti mafiosi, ma la cultura dell’illegalità è radicata profondamente in Sicilia. Il problema è culturale, dobbiamo subire questo trauma, rompere questo legame.

Tornando all’esempio del quartiere Brancaccio ciò che manca sono i servizi, un’informazione corretta su quello che succede. Una scuola che funziona è un grosso problema per la mafia. È giusto arrestare i mafiosi, ma sono decine di anni che si arrestano persone… È l’educazione alla legalità che fa la differenza. E si fa partendo dal basso.

D: Dove si nasconde la mafia?

R: Dove non si immagina. Di recente si è scoperto che il capomafia del Brancaccio è un medico. Senza contare la mafia che si nasconde nelle istituzioni. Una parte della classe politica siciliana è collusa con la mafia. Non dimentichiamo che l’ex presidente della Regione, Salvatore Cuffaro, si è dimesso in seguito a una condanna a cinque anni di reclusione per aver favorito dei mafiosi. Senza considerare altri deputati regionali, tra cui alcuni già condannati.

D: Oggi la Chiesa parla in modo deciso contro la mafia. All’epoca di Peppino come stavano le cose?

R: Purtroppo a Cinisi abbiamo avuto un parroco più colluso dell’altro. Attenzione. Io ho un buon rapporto con i preti: con molti ho organizzato iniziative forti contro la mafia. Ma a Cinisi i sacerdoti che si sono avvicendati non hanno fatto che chiudere gli occhi e tirarsi indietro quando abbiamo chiesto collaborazione. Fuori dal nostro territorio però il mondo cattolico si è molto legato alla figura di Peppino Impastato, anche se era dichiaratamente comunista, per via del suo sacrificio, della sua sofferenza e anche per il suo impegno in difesa della gente socialmente debole.

D: Tuo fratello come scoprì la mafia e come decise di combatterla?

R: La nostra famiglia era una famiglia in rapporti di mafia. Mio zio, Cesare Manzella – gli eravamo molto affezionati – era capomafia di Cinisi nel dopoguerra. Venne ucciso nel 1963 con un’autobomba. A quell’epoca Peppino era al primo anno di liceo. Io avevo dieci anni e ricordo bene quando andammo a vedere quello scempio. Resti dappertutto. Ricordo che mio fratello disse: «Se questa è mafia io per tutta la vita la combatterò».

Gli anni che seguirono furono un momento particolare. Era il Sessantotto. Il movimento studentesco, le lotte operaie… Il mondo stava cambiando. Peppino era una persona sensibile. Era un politico, ma anche un artista, un poeta, captava tutto quello che si muoveva. Non sapeva che, per l’appunto su un versante opposto, avrebbe fatto la stessa fine dello zio Cesare.

D: Com’è che la mafia decise di farlo fuori?

R: Mio fratello costituiva un pericolo reale, perché aveva rotto non solo con il contesto in cui viveva, ma, soprattutto, con la propria famiglia. Per la mafia questo è inaccettabile. La famiglia trasmette l’ideologia mafiosa in modo naturale, si può dire insieme al latte della madre. È la garanzia di quell’ordine. Peppino si ribellò a nostro padre che era amico personale di Tano Badalamenti, nel frattempo diventato capomafia di Cinisi.

D: Peppino era isolato oppure a Cinisi c’era chi lo sosteneva, almeno a livello morale?

R: Nell’ultimo periodo era riuscito a recuperare un certo consenso. Aveva fondato il circolo “Musica e cultura” che richiamava decine di giovani. Si faceva cinema, musica, teatro, anche feste. I ragazzi venivano. Poi è nata Radio Aut, decisiva per la sorte di molte persone. In radio Peppino usava l’arma dell’ironia e i paesani l’ascoltavano, magari di nascosto, ma non se lo lasciavano sfuggire, quando senza mezzi termini ridicolizzava i mafiosi di Cinisi, a cominciare da Tano Badalamenti. Si sentiva urlare «la mafia è una montagna di merda». Non era mai successo. La gente rideva dentro. Non c’è cosa più insopportabile per un mafioso, a cui si baciano le mani, essere mancato di rispetto, preso in giro davanti a tutti.

D: Qual era il clima in famiglia dal momento in cui Peppino ha iniziato ad affrontare la mafia?

R: Era una situazione molto pesante. Ricordo la disperazione di mia madre, i litigi furibondi con mio padre che alla fine lo buttò fuori di casa. Il momento più difficile fu quando Peppino fece stampare un volantino dove attaccava direttamente Badalamenti come trafficante di droga ed “esperto di lupara”. Per questo fatto mio padre venne richiamato da Tano. La mafia aveva capito che mio fratello faceva sul serio.

D: E tu cosa pensavi, cosa facevi?

R: Peppino aveva messo in crisi il ruolo del padre, non ne riconosceva l’autorità. Io avevo cinque anni di meno e mi sentivo impotente, ma capii subito che aveva ragione lui. Però non avevo la sua forza. La paura mi bloccava. Cercavo di mantenere un minimo di equilibrio nelle relazioni familiari. Vivevamo in mezzo a una tempesta.

D: Come morì tuo fratello?

R: Viene ucciso nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978. Lo stavamo aspettando a casa perché c’erano dei parenti dagli Stati Uniti. Mio fratello esce dalla radio e percorre la strada che costeggia il mare fra Terrasini e Cinisi. Lì è sequestrato da un commando mafioso e portato più avanti in un casolare dove viene tramortito, forse ucciso. Verranno ritrovate delle pietre con del sangue… Poi lo trasportano sui binari della ferrovia Palermo-Trapani e con una carica di tritolo lo fanno saltare in aria. Doveva sembrare un attentato. Peppino, nemico dell’ordine mafioso, ora diventava un terrorista, un nemico della società… Ce n’è voluto di tempo per ribaltare questa trama.

D: Che sentimenti hai provato per l’uccisione di Peppino?

R: È indescrivibile. Angoscia, paura, tristezza… L’unica cosa che non ho mai provato è il desiderio di vendetta. In certi casi, però, anche il perdono è una sciocchezza: ho sempre pensato che a quello ci deve pensare qualcuno che sta molto più in alto di me.

D: Come è emersa la verità?

R: Io, mia madre e i compagni di Peppino siamo andati avanti con determinazione. Non accettavamo che mio fratello fosse “archiviato” come terrorista. Abbiamo esposto denuncia alla Procura di Palermo indicando nomi e cognomi dei presunti mandanti. Abbiamo cercato di fare emergere la giusta immagine di Peppino e ci siamo riusciti.
Dopo nove mesi l’inchiesta è stata formalizzata come omicidio contro ignoti. Ma non ci siamo stancati. Mettere alla sbarra i mandanti era diventato lo scopo della nostra vita. Finalmente dopo venticinque anni siamo arrivati alla verità giudiziaria, anche se quella storica ce l’avevamo in pungo da sempre.

D: Se non avessero ucciso tuo fratello, avresti comunque dedicato la tua vita a combattere la mafia?

R: No. Magari avrei avuto una coscienza politica al riguardo, ma non avrei fatto tutto quello che faccio ora…

D: Felicia è stata convinta fino all’ultimo di portare avanti la denuncia?

R: Assolutamente sì. Forse era l’unica che non aveva paura. Temeva solo per me. Mi diceva «Tu parla poco, parlo io, se mi ammazzano non è un problema». Era stata la moglie di un mafioso, ma anche la madre di uno che aveva avuto più coraggio dei mafiosi. Non ha mai abbandonato mio padre, ma quando ha dovuto scegliere si è messa dalla parte di Peppino. Felicia ha scritto una pagina molto bella nella storia dell’antimafia, pagando in prima persona per la dignità di tutti. Purtroppo a Cinisi non è stata capita.

D: Ne sei sicuro?

R: Quando Peppino è stato ucciso, al suo funerale eravamo in pochi del paese, qualche amico stretto, qualche parente… Gli altri, tanti, erano venuti tutti da fuori. La stessa cosa si è ripetuta dopo ventisette anni per il funerale di Felicia. Il sindaco aveva indetto il lutto cittadino, ma il paese non c’era. E non per paura, ma per l’idea che ognuno deve farsi i fatti suoi…
(fine)