L’anfiteatro e il bar Futuro del passato

Archeologia Viva n. 7 – settembre/ottobre 1989
pp. 10-11

di Lorenzo Quilici

La piccola storia di un bar che nessuno per anni è riuscito a estromettere dalle arcate del Colosseo è sintomatica del grave stato di inefficienza del nostro apparato burocratico

E il cittadino sospetta ormai che “tutto” funzioni davvero così

Questa è la modesta storia di un bar ricavato dentro una delle arcate del Colosseo: non meriterebbe neppure di essere raccontata se non fosse significativa dei nostri costumi e delle pastoie del sistema burocratico.

Quante volte ci domandiamo come mai tanta inefficienza da parte delle Soprintendenze archeologiche: ecco un esempio, proprio nel suo piccolo, delle difficoltà che oppone il sistema anche quando ci sono le precise intenzioni, da parte di un organo dello Stato, di fermare un abuso.

Il bar fu aperto regolarmente nell’ormai lontano 1957 con autorizzazione del Ministero della Pubblica Istruzione e in convenzione con la Soprintendenza ai Monumenti del Lazio, allora competenti per l’anfiteatro, per la durata di cinque anni, poi prorogati fino al 1968, con l’erogazione di un affitto annuo di 1.400.000 lire da devolvere ai lavori di restaturo del monumento. L’accordo fu registrato prosso l’Ufficio del registro del Demanio di Roma.

Il bar occupò un fornice del secondo registro del monumento – qui la facciata del Colosseo manca – proprio di fronte all’arco di Costantino.

La nuova struttura fu inserita studiatamente entro l’antica, con elementi accostati e non leganti, così da non recar danno e da poter essere facilmente smontata.

L’arredo, con ad esempio banconi in travertino e pavimento in mattoni a spina di pesce, intendeva “richiamare” l’ambiente archeologico secondo un gusto della cultura ufficiale proprio degli anni Quaranta e Cinquanta.

Se pure non faceva danni, la realizzazione del bar richiese tuttavia la chiusura del fornice alle due estremità dell’ambito richiesto, così che il Colosseo ne ebbe accecata un’arcata. […]