I magnifici templi di Agrigento: riflessioni dopo il restauro Obiettivo su...

Archeologia Viva n. 126 – novembre/dicembre 2007
pp. 70-73

di Piero Pruneti, collaborazione di Alessandro Carlino

Al termine dei complessi e improrogabili interventi che hanno interessato una delle aree archeologiche più famose abbiamo incontrato il direttore del Parco archeologico della Valle dei Templi – Piero Meli – per parlare di una vicenda sotto gli occhi del mondo che ha richiesto l’impiego delle metodologie più aggiornate e dei restauratori migliori

D: Partiamo dai precedenti. Quali sono stati nel tempo i principali restauri dei templi?

R: I monumenti della Valle sono stati oggetto di diver­si interventi. A partire dalla fine del Settecento, con i primi lavori del principe di Torremuzza, che segnano il rinnovato interesse per le antichità classiche, i restauri sui monumenti agrigentini, in particolare sul tempio della Concordia, si sono susseguiti a cadenze non regolari, ma che rispondevano a una tempistica che potremmo definire di necessità: si interveniva per evitare che le archi­tetture subissero danni irreparabili.

Così, nel XIX secolo, ci sono stati gli interventi promossi della Commissione di Antichità e Belle Arti per la Sicilia, poi quelli dell’architetto Giuseppe Patricolo, e nel secolo scorso i lavori curati dai soprintendenti Griffo e De Miro, solo per citare i più noti.

D: In cosa consisteva il degrado a cui si è dovuto fare fronte? E quali ne erano le cause?

R: Le principali forme di degrado sono legate al materiale stesso con cui i templi agrigentini sono stati costruiti: una calcarenite organogena, molto porosa ed eterogenea, cioè tenera e friabile, che presenta stati di alterazione determinati dall’azione eolica e dall’umidità (di risalita dal terreno e meteorica), che hanno profondamente modificato la pietra stessa, con un’alveolizzazione diffusa su tutte le superfici e una lenta ma inesorabile polverizzazione; quest’ultima ha comportato la perdita della forma stessa degli elementi lapidei, annullando, a volte, le scanalature, assottigliando i setti, rendendo le colonne simili a torsi di mela o a elementi che ricordano più un formaggio svizzero che un massiccio rocchio.

Altre tipologie di degrado riscontrabili sono derivate dai sali solubili presenti nella pietra. Lo scopo degli interventi è stato proprio quello di rallentare tale lento polverizzarsi; dal momento che questo processo inesorabile non può essere definitivamente interrotto, si è cercato di rallentarlo proteggendo le superfici esposte. Inoltre, si è dovuto intervenire anche sui numerosi e, in alcuni casi, dannosi interventi operati nel tempo, che a loro volta hanno prodotto particolari forme di degrado.

Paradossalmente, sono stati proprio i precedenti restauri a mettere maggiormente a repentaglio la statica e la stessa sopravvivenza dei templi: come nel caso del cemento armato, ampiamente utilizzato all’inizio del XX secolo, o delle barre in ferro adoperate per rendere coerenti i rocchi delle colonne, che hanno provocato ossidandosi e, aumentando di volume, lesioni e dissesti statici a cui si è dovuto porre rimedio con l’ultima campagna di conservazione. […]