Incontro con Zahi Hawass La voce della storia

Archeologia Viva n. 123 – maggio/giugno 2007
pp. 70-71

Intervista di Giulia e Piero Pruneti

«Da piccolo volevo fare l’avvocato: sono archeologo per caso… ma non troppo»

«Anche l’Egitto ha i suoi “fregi del Partenone” in esilio e stiamo lavorando per riaverli»

«La mattina all’alba mi piace passeggiare solo davanti alla Sfinge»

«Sarò drastico per le tombe tebane: il turismo le sta distruggendo»

«Non esistono misteri e maledizioni ma solo la nostra ignoranza delle cose e dei fatti»

In Egitto è una potenza. Nel mondo una notorietà. Si parla di Zahi Hawass, segetario generale del Consiglio supremo delle antichità egizie. Da lui dipende lo sterminato patrimonio archeologico del Paese del Nilo, da Alessandria sul delta fino ad Abu Simbel, senza dimenticare le oasi e il Sinai.

Compare spesso in tv, dappertutto sul pianeta, e anche se non è l'”ultimo faraone”, come scherzosamente ama definirsi, si tratta di fatto del migliore ambasciatore di cui disponga oggi l’Egitto. Dovunque vada sono applausi, acclamazioni. E lui sta al gioco del personaggio che la gente si aspetta. Colto e arguto, capace di parlare nei congressi di settore, ma anche al cuore delle persone, di rispondere con pignoleria alle domande come disinvoltamente di eluderle.

Lo abbiamo invitato di recente al 6° Incontro Nazionale di Archeologia Viva. Il palacongressi fiorentino era stracolmo. Almeno millecinquecento presenti. Ci accorgiamo che entra nell’auditorium dall’agitazione improvvisa della sala, la folla che si alza, battere di mani, flash. E lui che non si sottrae a chiunque gli chieda una foto, un autografo, una stretta di mano. Gli ci vuole per raggiungere i microfoni. In archeologia si è mai visto nulla di simile?

D: C’è un motivo, una situazione in particlare che hanno fatto nascere in te il desiderio di fare l’archeologo?

R: È una storia lunga. A quindici anni volevo diventare avvocato. Mi misi a frequentare la Facoltà di legge, comprai i libri, ma non faceva per me. Mi iscrissi allora al Dipartimento di archeologia presso la Facoltà di belle arti, senza avere la più pallida idea di cosa si trattasse. Quando sei giovane succede spesso di non conoscere la strada… Appena laureato, poco più che ventenne, cercai lavoro nel settore, ma vedendo la pigrizia e il disinteresse dei miei colleghi decisi di abbandonare l’archeologia. Questa volta cercai di entrare nel servizio diplomatico, e fui bocciato agli orali del concorso.

È chiaro che il destino era un altro… Un po’ ci credo. Tornato, quasi per ripiego, al Dipartimento di archeologia, un giorno mi toccò un sopralluogo nel delta del Nilo. Alla fine della giornata gli operai mi chiamarono: «Abbiamo trovato una tomba. È una cosa grossa… Venga a dare un’occhiata». A dir la verità non volevo andarci, avevo i vestiti puliti e aspettavo solo di ripartire per il Cairo dove c’era la mia ragazza.

Poi mi sono mosso, alla fine mi pagavano per questo. Sono sceso all’interno della sepoltura e con un pennello ho iniziato a pulire la statua che si trovava al centro della camera. Era di una bellezza incredibile. Rappresentava Hathor, la dea sensuale dell’amore, l’Afrodite dei Greci, Venere per i Romani. Una volta ripulita l’opera, realizzai di aver trovato anch’io il vero amore della mia vita: l’archeologia.

Questo mi ha insegnato alcune cose importanti. La prima è che non basta che una cosa ti piaccia. Neppure amarla è abbastanza. Ma se si dà la propria passione per qualcosa, per quanto piccola essa sia, diventerà grande. Oggi, a distanza di anni, penso spesso che non esista persona al mondo più felice di me, grazie alla scelta di quel giorno in quella tomba del Delta. […]