Opificio delle Pietre Dure Un caso storico

Archeologia Viva n. 119 – settembre/ottobre 2006
pp. 58-67

di Cristina Acidini, Massimo Becattini, Fabio Bertelli e Maurizio Michelucci

Per il restauro di un capolavoro archeologico come il Bronzo di Lussino decisive sono state l’esperienza e la tecnologia che la prestigiosa istituzione fiorentina ha saputo mettere in campo

Ma la sua storia è lunga più di quattro secoli e affonda le radici in quella vera impresa per la cultura che fu la corte dei Medici

Cadono in questi tempi a Firenze due avvenimenti, importanti ben oltre la fama del capoluogo della Toscana: la mostra sul Bronzo di Lussino (vedi articolo in questo stesso numero), esempio di quanto estesa e insostituibile sia divenuta nel tempo la capacità operativa dell’Opificio delle Pietre Dure, e il quarantesimo anniversario della catastrofica alluvione dell’Arno (4 novembre 1966), che vide lo stesso Opificio protagonista nell’opera di recupero e restauro di quanto era stato devastato dall’acqua e dal fango. Fu proprio in occasione di quel disastro che l’Opificio maturò, con l’appoggio di esperti da tutto il mondo, quella serie di competenze che ne hanno fatto uno dei centri di eccellenza nel campo del restauro.

La grande mostra “Firenze restaura” del 1972 sancì i primi risultati di quell’immane lavoro, ponendo il laboratorio all’assoluta avanguardia nel campo delle tecniche d’intervento sui materiali più disparati. Tra questi due eventi emblematici – il restauro dell'”Atleta della Croazia” e il quarantennale dell’alluvione – si colloca la vicenda recente di un’istituzione la cui capacità operativa e manifatturiera spazia per oltre quattro secoli.

La splendida tecnica del “commesso fiorentino”

L’Opificio delle Pietre Dure era nato come insieme di laboratori, voluti all’interno degli Uffizi da Cosimo I de’ Medici (1519-1574), primo granduca della Toscana, per soddisfare le esigenze di magnificenza della corte. Nel 1588 il successore Ferdinando I dette stabile ordinamento alle varie officine al servizio dei granduchi, raggruppando intagliatori di pietre, ebanisti e arazzieri; in particolare, ebbe sviluppo alla fine del Cinquecento il “commesso fiorentino”, per secoli vanto e primato europeo della manifattura granducale.

Il “commesso” è una tecnica ingegnosa di mosaico, che si serve dei colori naturali delle pietre pregiate, sagomate e sapientemente accostate, per formare l’immagine d’assieme. Questa tecnica è rimasta immutata nei secoli, anche quando al lavoro manuale almeno in parte si sono sostituite le macchine.

Massima espressione delle capacità operative dell’Opificio, è la Cappella dei Principi in San Lorenzo, portata avanti per secoli e interamente foderata di pietre dure, titanico capolavoro in cui le botteghe granducali furono impegnate dai primi del Seicento. I tentativi sette e ottocenteschi di dare compimento alla Cappella, se non riuscirono nell’intento, aggiunsero comunque nuovi capolavori al mausoleo della famiglia Medici.

Fino a noi sono giunte anche le cospicue riserve di pietre pregiate, di colore e tonalità diverse, provenienti da tutto il mondo, necessarie alla lavorazione dei manufatti in “commesso”. Un altro tipo di produzione in cui furono impiegate le manifatture nel Seicento è quella dei grandi reliquiari offerti in dono dalla corte medicea a sovrani e chiese di tutta Europa; qui le pietre dure sono spesso abbinate con legni prezioso, col bronzo e l’argento. […]