Incontro con Riccardo Francovich La voce della storia

Premio Riccardo Francovich

Archeologia Viva n. 112 – luglio/agosto 2005
pp. 80-82

Intervista di Giulia e Piero Pruneti

«Il “buio del Medioevo” sono solo i molti aspetti che rimangono da chiarire e nient’altro»

«Non sono lontani i tempi in cui i resti medievali erano solo un ostacolo per arrivare agli strati classici»
«Per le società come per gli individui è indispensabile difendere il proprio patrimonio identitario»
«L’utilità sociale di un’impresa archeologica è importante quanto il contributo scientifico che può dare»
«Mi hanno sempre interessato i “muti della storia” che non avendo lasciato segni scritti non hanno avuto diritto di parola nella ricostruzione del passato»

Ci attende per l’intervista nella sua colonica ai margini di Firenze. Questo angolo di campagna toscana è il luogo da cui ogni giorno il professor Francovich parte per Siena, dove insegna Archeologia medievale, per ritornare puntualmente ogni sera a ricaricare le pile. Sfogliando il suo curriculum si capisce che ne ha bisogno.

Decine di scavi, una infinità di pubblicazioni, tesi di laurea da rileggere, il confronto costante con i suoi gruppi di ricerca e con i colleghi italiani e stranieri, una cura particolare verso la comunicazione e la divulgazione delle scoperte, che è il suo modo di dimostrare l’utilità sociale della ricerca archeologica. Per lui è importante che uno scavo venga apprezzato e capito dai cittadini e dagli amministratori.

Da qui sono nati i progetti per valorizzare e rendere visitabili siti diventati ormai centrali per la comprensione del Medioevo, come il villaggio archeominerario di San Silvestro, nel comune di Campiglia (Li), e la Fortezza di Poggibonsi (Si), trasformati in pochi anni da aree di scavo in parchi frequentatissimi.

Lo lasciamo al tramonto fra gli olivi della sua terra. Intorno nessuna casa a perdita d’occhio. Solo il castello di Montisoni, in alto sulla collina del San Donato, che biancheggia nel suo improbabile restauro. «L’hanno voluto intonacare coprendo il paramento murario del XII secolo. Come si può pensare una cosa simile… », commenta Francovich mentre ci congeda. «Fra poco riprendono gli scavi alla torre di Donoratico, quella di Ugolino della Gherardesca. Vienimi a trovare…».

D: L’epoca medievale viene spesso associata all’idea di un periodo “buio” per l’Europa, tanto da divenire metafora di situazioni che regrediscono dal punto di vista della civiltà. Com’è nato questo mito del Medioevo come “notte della Storia”?

R: Il “buio del Medioevo” è una espressione legata a un’idea “umanistica” di un’epoca intermedia che iniziò con le migrazioni “barbariche” e si concluse con la rinascita della cultura figurativa, dell’architettura e delle lettere, una fase comunque marcata dall’oscurità e dalla regressione. Oggi però questa “interpretazione” non ha più quella carica ideologica che aveva nella storiografia di un tempo.

Oggi il Medioevo è percepito invece come una fase di profonde trasformazioni, tra il Tardoantico e il Rinascimento, terreno di ricerca stimolante con aspetti che non sono stati ancora del tutto chiariti. Per esempio, se volessimo ricostruire il processo attraverso il quale viene a formarsi il paesaggio urbano, ci rendiamo conto che abbiamo fonti scritte sostanzialmente assenti e, quando le abbiamo, non univoche.

La stessa situazione si può verificare nelle campagne europee e italiane: quando si svilupparono i villaggi rurali e quando e dove nascono i castelli? Sono fondazioni ex novo, che hanno iniziato a diffondersi intorno al Mille o sono qualcosa di precedente? Ecco, forse è in questo e in altri nodi ancora da risolvere che si deve portare la luce su questo segmento di storia dell’insediamento che è rimasto per lungo tempo oscuro, ma soltanto per carenza di documentazione scritta.

Certo terreno interessantissimo per andare a indagare i processi formativi di un assetto sociale e di potere che soltanto il contributo archeologico può permettere di intravedere e interpretare.

D: È vero che in questo sforzo di conoscenza l’archeologia sta dando un contributo più fattivo della ricerca storiografica?

R: Sicuramente per quanto riguarda, come accennavo, la formazione della città medievale: nella fase compresa fra il V e il XII secolo le dark earth e la diffusione delle architetture di legno sono state attestate sostanzialmente dal lavoro archeologico, il che non è questione da poco; l’archeologia sta aprendo prospettive assolutamente nuove per riscrivere la storia urbanistica. La costruzione del documento archeologico, a differenza di quelli storiografico, è in costante arricchimento.

Ma vorrei precisare, anche a evitare rischi di polemiche con gli amici storici, che l’archeologia non dà soltanto risposte a problemi storiografici, fornisce un contributo sostanziale nella conoscenza del passato, nel nostro caso del Medioevo. Anzi, alcuni storici dell’economia altomedievale più accorti, come Mc-Cormick o Chris Wickhman, hanno utilizzato e stanno utilizzando le fonti archeologiche per riscrivere la storia degli scambi dall’Europa del nord fino al Mediterraneo e al vicino Oriente.

D: In Italia da quanto tempo l’Archeologia medievale può essere considerata operativa?

R: Da non più di trentacinque anni. In estremo ritardo rispetto ad altri Paesi europei e certamente rispetto all’Archeologia classica che ha una tradizione di secoli. L’Archeologia medievale aveva avuto un suo sviluppo già nel corso dell’Ottocento, in piena temperie positivista. A quell’epoca importanti insediamenti e necropoli altomedievali erano stati scavati con successo da studiosi anche molto competenti.

Poi arrivarono il Novecento e il fascismo, con il loro carico di cultura idealista e con il culto della romanità, e le tracce del Medioevo vennero cancellate sistematicamente. Basti pensare alla sparizione di interi quartieri medievali e rinascimentali di Roma quando si trattò di realizzare via dei Fori Imperiali, distruggendo tutto quanto si frapponeva fra piazza Venezia e il Colosseo.

Bisogna aspettare gli anni Sessanta perché la questione dell’archeologia post classica venga riaperta, anche grazie da un lato alla richiesta esplicita di alcuni degli storici medievali più attenti e dall’altra alla nascita della prima cattedra di Archeologia medievale all’Università Cattolica di Milano.

Ma il contributo più sostanziale è venuto dalle scuole straniere a Roma, a cominciare dalla Scuola Britannica, e da gruppi di ricerca interdisciplinare distribuiti nelle Università di Genova, Firenze, Torino e Palermo.

D: A volte si dice che l’Europa è figlia dei Celti, oppure dei Romani, o della Rivoluzione francese… Per lo storico Le Goff invece l’Europa di oggi è debitrice in modo particolare verso il Medioevo…

R: Credo che le radici della nostra cultura stiano in quel periodo di grandi trasformazioni, cioè già a partire dal VI-VIII secolo. Penso in particolare alle forme insediative accentrate che andarono ad occupare, come possiamo vedere ancora oggi in tutta l’Europa mediterranea e continentale, siti “vincenti”, quelli cioè che sopravvivono in ad ora: le radici del paesaggio contemporaneo risalgono senza dubbio al medioevo.

Le stesse realtà urbane, dopo la drastica riduzione del numero nella fase della transizione, se sopravvissute allora, hanno continuato a svilupparsi fino ad oggi con caratteristiche urbanistiche di XIII e XIV secolo, che soltanto in rari casi ci permettono di cogliere gli originari impianti di età classica. La stessa distribuzione geografica sul territorio europeo delle culture e dei popoli si va definendo in quella fase. Lo stesso modo di organizzarsi del potere laico e religioso, il formarsi delle aristocrazie, la nascita della signoria territoriale, sono tutti fattori che hanno contribuito a definire i caratteri essenziali della società rurale preindustriale europea.

D: L’arte figurativa del Medioevo è in grandissima parte arte sacra. Questo fattore può aver alterato il giudizio sul valore reale che la Chiesa ha avuto nella civiltà medievale, oppure il cristianesimo è stato davvero così totalizzante in quell’epoca?

R: Come per la ricostruzione della storia del Medioevo in generale e della cultura e della mentalità sono stati determinanti gli archivi e le biblioteche vescovili e dei monasteri, così le strutture edilizie religiose con i loro corredi e i cicli decorativi si sono conservati molto meglio e in maggior numero rispetto ai documenti scritti e materiali delle grandi famiglie signorili laiche.

È chiaro allora che da questo punto di vista si è verificato un netto privilegio per la memoria religiosa, e a maggior ragione non sfugge a questa logica anche la cultura figurativa: basti pensare non solo al numero di edifici religiosi (chiese, monasteri, cappelle, ospedali) non solo romanici, ma anche preromanici che sono giunti fino a noi o che sono stati inglobati all’interno di strutture che hanno continuato nel tempo, a confronto ad esempio con le strutture residenziali, fortificate o meno, della stessa epoca.

Ma non è tutto qui. All’interno dei villaggi in legno che stiamo scavando, scopriamo che le chiese erano invece costruite in pietra: una dimostrazione inequivocabile del potere ecclesiastico, ma anche dell’evergetismo delle piccole e grandi aristocrazie, che insieme a esprimere la propria religiosità mettevano in evidenza la propria immagine di potenza.

La cultura religiosa è stata un elemento essenziale nella vita del Medioevo, su questo non c’è dubbio: la diffusione dell'”arte sacra” è l’espressione di culture e sentimenti che permeavano in profondità la società medievale, ma l’immagine di lunga durata e del suo ruolo ha senz’altro tratto vantaggio dalla continuità, dalla miglior conservazione spirituale e patrimoniale rispetto alla discontinuità che spesso ha caratterizzato le grandi e le piccole espressioni del potere laico, o alla precarietà delle strutture materiali delle classi subalterne.

Detto ciò, non bisogna assolutamente scordare che il Medioevo non fu soltanto cristiano: basti pensare alla Spagna o alla Sicilia, per secoli terreno di cultura islamica, o alle larghe parti dell’Europa del Nord, dove l’evangelizzazione arrivò nel Medioevo avanzato.

Credo che il tentativo di ricostruire le vicende della cultura religiosa, nelle sue diverse espressioni, ideologica, materiale e figurativa, possa trarre giovamento dal collocarlo nel contesto generale del periodo che abbiamo di fronte. Certo avendo da poco riportato alla luce con i miei collaboratori e allievi, attraverso lo scavo archeologico, la cripta del Duomo di Siena, con uno straordinario ciclo pittorico preduccesco (cioè precedente l’opera di Duccio di Buoninsegna, fine XIII-inizi XIV secolo – ndr), mi rendo conto della capacità di attrazione, per la complessità e l’interesse dei temi che implica, che può avere una documentazione di quella fatta.

D: Oltre all’archeologia e alla storiografia, anche la tradizione può essere d’aiuto nella comprensione del passato…

R: Vivendo in Toscana, ma la cosa si ripete a livello europeo in migliaia di situazioni, questo appare chiaro. Ho davanti agli occhi l’immagine di amministrazioni comunali che ancora occupano i palazzi, i centri de potere, che si sono formati per quella funzione fra il XIII e il XIV secolo. Ma questa percezione di tradizione la generazione l’ha colta con grande evidenza in alcuni rapporti di produzione, soprattutto nelle campagne, dove ha continuato fino a tutti gli anni Sessanta la mezzadria, con le sue radicate origini nel XIII secolo, e carica di rapporti e segni propri della società feudale.

D: Stiamo assistendo un po’ dappertutto alla riscoperta delle tradizioni locali, spesso relazionate al Medioevo.

Quanto è positivo questo fenomeno e quanto invece valorizzare i particolarismi può ostacolare un’integrazione tra i popoli?

R: Sono convinto che difendere il proprio patrimonio identitario sia un fatto essenziale e utile, in senso assoluto. Più caratteri specifici possiedi e più sei disposto ad aprirti al mondo esterno. Può sembrare paradossale, ma è così: è una questione di sicurezza nei confronti degli altri, individui o popoli che siano.

Il problema si vene a creare quando queste peculiarità locali, regionali o nazionali sono andate perdute o non sono mai esistite, perché allora si intraprende la difesa di qualcosa che manca, si ricostruisce il nulla: ad esempio il ridicolo chiamo medievaleggiante di una supposta identità padana fa solo ridere.

D: Esiste un “valore medievale” che stiamo vivendo tutt’oggi?

R: Se si può considerare un valore, e io credo che lo sia, penso che il “vivere insieme”, il sentirsi comunità, trovi una sua collocazione precisa nel Medioevo. È un’eredità che si percepisce ancora oggi nei nostri modi di essere, soprattutto nelle superstiti realtà rurali e più in generale nella provincia. Dove questo sentimento manca è un dramma, individuale e sociale.

D: In che misura l’archeologia interagisce con la società in cui viviamo?

R: Il successo e la qualità della ricerca dipendono dalla compatibilità e dalle sinergie che si instaurano tra l’archeologo e il contesto sociale in cui opera, ovvero dall’utilità sociale del suo lavoro. Purtroppo, sono ancora molti gli archeologi che non capiscono che gran parte del loro impegno professionale deve concentrarsi nel comunicare al meglio, nella forma più comprensibile, i risultati delle proprie ricerche.

Da questo punto di vista le nuove tecnologie, con gli strumenti informatici che abbiamo a disposizione, ci offrono oggi, per la prima volta, la possibilità di dialogare efficacemente con la società contemporanea. Ma il tutto deve partire dalla consapevolezza che il patrimonio archeologico un bene collettivo, che, per essere conservato e diventare elemento essenziale nel processo di sviluppo, deve condurre all’inclusione, alla partecipazione, alla condivisione.

La divulgazione è importante anche per la ricerca. Quando sento certi colleghi esprimersi con una terminologia pressoché incomprensibile penso che siano essi stessi i primi a non aver compreso ciò di cui stanno parlando. O trasmetti in modo chiaro quello che stai facendo oppure hai fallito il tuo compito.

D: lei è fra i protagonisti della realizzazione del Parco archeominerario di San Silvestro, ormai un esempio di piena valorizzazione di un territorio altrimenti soggetto all’abbandono e al degrado. Qual è il segreto di questo successo?

R: Sicuramente l’impresa non si sarebbe attuata senza una piena armonia fra i ricercatori universitari e il governo locale che, ora come in passato, ha fatto scelte molto apprezzabili sotto il profilo culturale.

Inoltre si è verificata quella “utilità sociale” indispensabile al mio modo di vedere le cose e di lavorare. Quel territorio, un bacino minerario dismesso, era un vero problema sotto il profilo della tutela del territorio e del patrimonio culturale sia del contesto sociale per la crisi occupazionale in atto, con la crisi comprensionale della siderurgia.

Dopo anni di scavi, durante i quali, si badi bene, si è sempre cercato di comunicare alla comunità locale il valore delle nuove “ricchezze” che stavamo riportando in luce, il sito di San Silvestro, con il suo villaggio medievale di minatori e fonditori, è visitato ogni anno da trentamila persone e vi lavorano ventidue dipendenti. I visitatori permettono di reggere economicamente la struttura del parco, e ciò produce un vasto indotto nel settore turistico dell’area.

La consapevolezza degli amministratori di rispondere ai nuovi bisogni dei cittadini attraverso una politica di difesa del patrimonio è necessaria quanto l’incisività della ricerca sul campo, che certamente non è un appannaggio di strutture centrali dello Stato.

Poi, il dato essenziale sta nel significato intrinseco delle iniziative archeologiche che si pianificano e nel caso del Parco di San Silvestro si tratta davvero di un grande monumento, fondamentale per la storia delle attività produttive preindustriali, ma esplicativo anche dei duemilacinquecento castelli medievali presenti in Toscana. Un caso unico in europa.

D: Ci sono casi eclatanti di mancato coinvolgimento sociale e di mancata valorizzazione di una scoperta archeologica?

R: Ce ne sono tanti; basta rimanere in Toscana per citarne uno esemplare. Mi vengono in mente trent’anni di scavi nel centro di Firenze, a partire da piazza della Signoria, sui quali a tutt’oggi non esiste, non dico un museo, ma uno straccio di pubblicazione. Gli stessi reperti non si sa dove siano stati messi. È stato un disastro annunciato. In questo caso scavare ha significato davvero distruggere.

E per capire come sia successo, dobbiamo considerare che fu un’operazione scelta e condotta in esclusiva dalle istituzioni alte, quelle ministeriali, completamente e volutamente separate dalla comunità cittadina, dalle università, dai centri di ricerca. È stato un lavorare “contro” e non “per” la collettività. L’archeologia ha una potenzialità sociale straordinaria, ma bisogna lavorare insieme.

D: Da cosa è nata questa sua passione per il Medioevo, fino a farla diventare uno dei massimi esperti di questo periodo?

R: L’epoca mi affascinava, perché se ne sapeva moltissimo in termini di organizzazione del potere, ma poco o nulla se si prendevano in considerazione i “muti della storia” ovvero quei milioni e milioni di europei anonimi che non avendo lasciato segni scritti, ma solo testimonianze materiali, in qualche modo non avevano diritto di parola.

Non nascondo che nella mia scelta c’era anche una componente ideologica. Far parlare i “muti” era una sfida che raccoglievo suggestionato in parte dalla storiografia francese delle Annales, in parte dallo storicismo marxista. Mi premeva capire quali fossero le strutture di organizzazione del potere medievale. Partire dall’occupazione dello spazio rurale tra V e VIII secolo per analizzarne l’evoluzione, dalle logiche contadine alla creazione dei primi nuclei aristocratici che tutti conosciamo.

D: C’è chi ritiene la storia una continua evoluzione verso condizioni di vita materiale, civile e spirituale sempre più evolute. Condivide questa visione?

R: Ecco, credo proprio che non si tratti di una condizione ineluttabile. Se penso soltanto a cosa si è verificato nel secolo “breve”, con i grandi stermini di massa, il diffondersi delle diverse forme di razzismo… E anche oggi, guardandosi intorno, dopo quello che è successo nella ex Jugoslavia, alle Torri Gemelle, in Afghanistan, quello che succede in Iraq, non c’è da essere ottimisti.

La storia non sembra una linea in crescita costante, ma piuttosto fa pensare a linee spezzate che si impennano verso l’alto per dopo precipitare in basso. Da questo andamento della storia che non ha una logica forzata, possiamo solo trarre una conclusione: è bene che ognuno di noi svolga il proprio ruolo con grande senso di responsabilità, partendo dai principi della tolleranza, dell’inclusione, dello scambio reciproco. Questi sono i valori che non sono dati una volta per tutte, ma vanno difesi con le unghie e con i denti in ogni istante del nostro vivere quotidiano, anche facendo archeologia.