Incontro con Giuliano Volpe La voce della storia

Archeologia Viva n. 109 – gennaio/febbraio 2005
pp. 80-82

Intervista di Giulia e Piero Pruneti

«Nella storia esistono le “svolte” anche se non è detto che i contemporanei se ne accorgano»

«L’archeologia ha contribuito a rivedere l’immagine tradizionale del Tardoantico: un periodo che pur avendo come esito una profonda rottura certamente non fu solo “declino” e “caduta”»
«Fu una storia al plurale con un intreccio di forze che provocò una profonda mutazione»
«Oggi sta succedendo qualcosa che ci ricorda il travaglio di un impero e la nascita di un mondo nuovo»

Il nostro viaggio nel dibattito stroriografico fa tappa con un archeologo, Giuliano Volpe, ordinario di Archeologia e Storia dell’arte tardo antica e presidente del Corso di laurea in Beni culturali all’Università di Foggia. A Foggia il professor Volpe insegna anche Metodologia e tecniche della ricerca archeologica, Archeologia dei paesaggi e Archeologia subacquea da anni dirige ricerche archeologiche in mare e in terra, tra cui i cantieri subacquei alle isole di Hyères (Francia) e a Ustica e, in Puglia, gli scavi dell’antica città di Herdonia (Ordona), della villa e della chiesa paleocristiana di San Giusto nel territorio di Lucera, del complesso episcopale paleocristiano di San Pietro a Canosa, della villa tardoantica di Faragola ad Ascoli Satriano.

Intensa l’attività editoriale: è responsabile delle collane Bibliotheca Arcaeologica e Insulae Diomedeae e della rivista «L’archeologo subacqueo. Quadrimestrale di archeologia subacquea e navale» (Edipuglia, Bari), che proprio quest’anno compie il primo decennale. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: La Daunia nell’età della romanizzazione. Paesaggio agrario, produzione, scambi (19909, Contadini, pastori e mercanti nell’Apulia tardo antica (1996), San Giusto: la villa, le ecclesiae (1998), Archeologia subacquea (1998), Ordona X. Ricerche archeologiche a Herdonia 1993-1998 (2000).

D: Ripercorrendola storia fino ai giorni nostri possiamo individuare dei “passaggi decisivi”, di quelli che, come si dice, cambiano il “corso”?

R: È uno degli argomenti si cui gli storici riflettono da sempre. La Storia che cambia il corso… Ad esempio, l’età tardo antica, comunemente intesa come il periodo compreso tra il III e il VII secolo della nostra èra, ha sempre costituito un riferimento forte. Il grande Arnaldo Momigliano (1908-1987), in un famoso articolo intitolato La caduta senza rumore di un impero nel 476 d.C., sosteneva che tale data, anno ufficiale della “caduta” dell’impero romano, diventata fondamentale per noi, non fu avvertita così dai contemporanei.

Sicuramente per i cittadini di Roma furono molto più drammatici il 410 e il 455, quando i saccheggi dei Goti di Alarico e dei Vandali di Genserico dimostravano la vulnerabilità di quella che era stata per secoli la città più potente e sicura dell’impero.

Una storiografia più attenta agli aspetti culturali, alla storia delle mentalità, alle lunghe durate, insiste sulle continuità e sulle trasformazioni lente, mentre chi voglia privilegiare la sfera delle strutture economiche e sociali, della politica e dell’amministrazione, non può non cogliere la portata dirompente di certi avvenimenti. Applicando questa riflessione alla nostra epoca potremmo chiederci se il 1989, anno della “caduta” del Muro di Berlino e dell’impero sovietico, abbia costituito o meno una di quelle che chiamiamo “svolte periodizzanti”. A noi sembra di sì, anche se siamo troppo vicini per un giudizio distaccato.

A mio parere il 476 costituisce una reale data di “svolta”, uno di quegli avvenimenti che potremmo considerare un “acceleratore di trasformazione”, anche se – appunto come sosteneva Momigliano – in molte parti dell’impero non venne avvertito come tale, in quanto gli aspetti di continuità furono notevoli. Resta il fatto che il 476, come – sembra a noi – il 1989, è da considerare un momento in cui si è avuta una brutta accelerazione nel processo storico.

D: Lei sente molto il fascino di quell’anno. Che cosa avvenne esattamente nel 476?

R: Sostanzialmente si ebbe, dopo una lunga serie di imperatori fantocci manovrati da generali o dagli imperatori d’Oriente, la deposizione di Romolo Augustolo (475-476), l’ultimo imperatore romano d’Occidente, cui, esplicitamente, era stato attribuito quel nomignolo. Anche se ormai da tempo l’impero romano d’Occidente e quello d’Oriente erano formalmente separati, con l’invio delle insegne a Costantinopoli, nel 476, si sanciva la fine della continuità del potere imperiale in Occidente.

Molti storici, tuttavia, hanno fatto notare come l’impero, anche se non più a Roma, continuò nella capitale sul Bosforo fino al 1453, anno in cui l’antica Bisanzio cadde nelle mani dei Turchi. Fino ad allora gli imperatori bizantini furono in tutto degli imperatori romani: parlavano e scrivevano in greco, ma si sentivano e dichiaravano romani.

D: Giustamente, anziché un anno, è meglio riferirsi a un’epoca. Vogliamo allora parlare di questo “passaggio storico” che chiamiamo Tardoantico?

R: Fino a non molto tempo fa lo studio di quest’epoca è stato terra di nessuno, una sorta di periferia della ricerca, dove si avventuravano da un versante gli antichisti e dall’altro i medievisti. A lungo è stato praticato quasi solo sa storici e archeologi cristiani, che però hanno inevitabilmente privilegiato gli aspetti – rilevanti, ma fuorvianti se svincolati da un esame complessivo – legati alle prime comunità cristiane.

I primi a individuare il Tardoantico sono stati alcuni storici dell’arte (Alois Riegel, suo vero “inventore” agli inizi del Novecento, ma prima di lui già Giorgio Vasari, e in tempi più recenti il grande Ranuccio Bianchi Bandinelli) che hanno colto nelle sue forme artistiche alcuni elementi di profonda trasformazione. Negli ultimi anni si è assistito, invece, a una vera esplosione di studi, tanto che proprio esplosione di tardoantico ha titolato uno stimolante e provocatorio articolo uno degli studiosi più brillanti di questo periodo, Andrea Giardina, allievo di un grande maestro come Santo Mazzarino, pioniere degli studi tardoantichistici.

Questi studi recenti in alcuni casi sono sfociati in versioni anche troppo idilliache, forse come reazione a u’idea del Tardoantico inteso quasi esclusivamente quale epoca di crisi e decadenza. Ad aprire la strada è stata senza dubbio l’opera monumentale di Edward Gibbon 1737-1794), Decline and fall of the Roman Empire, in cui lo storico inglese spingeva l’analisi fino al 1453, quando finisce l’impero romano d’Oriente. La tesi del “declino” e della “caduta” ha avuto una forte influenza sugli studi successivi, tanto che il tardo antico è divenuto l’«archetipo di ogni decadenza», per usare un’altra felice espressione di Momigliano.

Nel corso del Novecento sono stati numerosi gli studiosi che hanno interpretato il Tardoantico sotto la forte influenza della situazione del tempo. È il caso di Mikhail Rostovtzeff (1870-1952), un ricco esponente della borghesia russa, esule a seguito della rivoluzione bolscevica del 1917, per il quale il motivo della crisi dell’impero romano andava ricercato nell’imbarbarimento della società, in particolare delle classi alte, a causa dell’immissione di personaggi di basso rango che ebbero accesso a carriere militari e amministrative.

Neppure Gibbon del resto scrisse la sua opera completamente svincolato dai condizionamenti del suo tempo, se si pensa che le sue teorie videro la luce durante una fase critica dell’impero britannico, nel periodo a cavallo tra la rivoluzione americana e quella francese.

Sarà infine sull’esperienza di un’Europa devastata dal nazismo, che altri storici, come André Loyen, André Piganiol e Pierre Courcelle, fonderanno l’immagine dell’impero romano caduto perché “assassinato” dai barbari.

D: Un’idea diffusa è quella secondo cui a minare l’impero sarebbe stato il cristianesimo, che ne avrebbe distrutto l’essenza mettendo in crisi l’autorità imperiale, l’imperatore divinizzato, contestando l’economia schiavista…

R: Il cristianesimo è stato certo uno dei fenomeniche hanno caratterizzato il periodo tardoantico. In particolare, da Costantino (306-337) in poi, esso diventò una presenza forte nella storia romana del Mediterraneo. Indubbiamente nel primo cristianesimo erano presenti elementi “eversivi” che rischiavano di minare alcuni pilastri della società.

Ricordo il celebre caso di due ricchi aristocratici, Melania e Piniano, che decisero di darsi a vita ascetica e pertanto vollero disfarsi del loro patrimonio, tentando anche di liberare i propri schiavi: questi però preferirono conservare la condizione servile ed essere venduti a un esponente della stessa famiglia, in modo da non perdere le sicurezze garantite dalla struttura familiare. Ma, nello sconvolgimento dell’assetto antico, il cristianesimo diventò un elemento di continuità: i vescovi, a partire dal V-VI secolo, assumono poteri e funzioni che garantiscono la sopravvivenza delle strutture cittadine. Resta in ogni caso il problema della periodizzazione: non a caso ci stiamo ancora interrogando sui confini cronologici del Tardoantico.

Molti studioso, a partire da Riegel, ne fanno risalire l’inizio all’età costantiniama, in particolare con l’Editto di Milano emanato da Costantino nel 313, che riconosceva il cristianesimo come religione autorizzata. Ma c’è anche tutta una corrente di storici e archeologi, soprattutto di scuola anglosassone, secondo cui l’inizio del Tardoantico andrebbe anticipato già all’impero di Marco Aurelio, nella seconda metà del II secolo, cioè durante una delle fasi forse più espansive della storia imperiale: Il mondo tardonatico. Da Marco Aurelio a Maometto è, appunto, il titolo di un famoso libro di Peter Brown. Non meno divergenze s’incontrano nello stabilire la fine del Tardoantico.

Riegel pensava che si dovesse arrivare addirittura a Carlo Magno (771-814) quando, ormai in pieno Altomedioevo, fu (ri)costruito il… “sacro romano impero”. Secondo altri, la fine va fatta risalire al VII secolo, con la conquista araba del Nord Africa e del Vicino Oriente che spezzò l’unità religiosa, culturale e socioeconomica del Mediterraneo. C’è anche chi ha proposto inizi diversificati a seconda delle aree geografiche, in relazione a diversi momenti di destrutturazione: prima in Italia, poi in Africa, più tardi ancora in Oriente. Questa prospettiva rischia, però, di riproporre la formula “Tardoantico uguale crisi”.

D: Lei, in quale di queste posizioni si sente più a suo agio?

R: Penso che, ragionando in termini di microstrutture, si possano individuare la fine del III e il VII secolo come gli estremi del Tardoantico. È opportuno però tener conto degli assetti territoriali: nell’analisi storica sono importanti non solo i tagli cronologici, ma anche quelli spaziali. Per l’Italia il momento della provincializzazione in età diocleziana-costantiniana, tra fine III e inizi IV secolo, presenta elementi forti per definirne l’inizio.

Se pensiamo al contesto del Mediterraneo, soprattutto occidentale – diverso da quello orientale, che ha forme di continuità molto più forti grazie all’impero bizantino – il VII secolo costituisce davvero il momento della rottura. Una rottura che, ad esempio in Italia, si avverte ovunque: nell’organizzazione delle città, nelle strutture produttive delle campagne, con la crisi definitiva delle villae, nella circolazione delle merci e, da un punto di vista politico istituzionale, nella frammentazione della Penisola in zone longobarde e zone bizantine.

D: Si può dire allora che in questo periodo si pongono le premesse dell’assetto medievale…

R: Certamente ci sono aspetti medievali che affondano nel Tardonatico, come il monachesimo o l’organizzazione della Chiesa, o alcuni caratteri della vita rurale e di quella urbana. Se pensiamo all’Italia romana vediamo che si tratta di un territorio di civitates, organizzato su municipi, colonie; in età tardo antica succede invece che la Penisola non ha più un assetto di città che si autogovernano.

Con la rivoluzione istituzionale diocleziana-costantiniana le città non furono più autonome, ma organizzate in province con a capo un governatore, un funzionario imperiale. E insieme all’autogoverno venne meno l’interesse delle classi dirigenti verso l’attività politico-amministrativa, mentre si era attirati dalla carriera militare e dalla burocrazia. […]