Good bye Palestina? Uno scudo blu per la memoria Futuro del passato

Archeologia Viva n. 108 – novembre/dicembre 2004
pp. 76-81

di Fabio Maniscalco

Il problema della tutela del patrimonio nelle aree di crisi viene riportato all’attenzione della comunità internazionale con una iniziativa nei territori palestinesi dove il simbolo di protezione previsto dalla Convenzione dell’Aja è stato apposto su una serie di monumenti da salvare

Come hanno dimostrato le recenti cronache, durante una guerra, in assenza di regole riconosciute e di osservatori indipendenti, è impossibile garantire il rispetto dei diritti umani. Rispetto che è ritenuto “istintivo” e doveroso da quanti non sono partecipi, fisicamente ed emotivamente, al conflitto, ma che viene ponderato in maniera opposta da chi ne è coinvolto. Per questa ragione, massacri, stupri di massa e torture possono essere considerati utili e legittimi “strumenti strategici” o, al contrario, delitti biechi. Per certi versi, addirittura più allarmante è la situazione della tutela del patrimonio culturale, che è stata invocata dalla comunità internazionale solo in rare situazioni, come nei casi eclatanti del ponte di Mostar (ricostruito in tempi rapidi proprio grazie alla sua fama), dei Buddha di Bamiyan o del Museo di Baghdad. I conflitti degli ultimi anni confermano, nondimeno, che le strategie delle fazioni in lotta erano finalizzate ad annientare non solo il futuro dell’avversario, ma anche il suo passato. Per scongiurare ulteriori episodi di questa damnatio memoriae, la protezione del patrimonio nelle aree a rischio bellico dovrebbe essere considerata prioritaria, al pari della salvaguardia dei diritti umani, perché finalizzata a preservare l’identità dei popoli. Infatti, non esiste un popolo senza la sua storia.

Violazioni ai diritti umani e alla “civiltà” del nemico sono riscontrabili anche in Palestina, soprattutto dopo il fallimento degli Accordi di Oslo I e II. Un fallimento prevedibile. Gli Accordi di Oslo hanno acuito l’astio tra le parti sia per le divergenze sulla questione delle risorse idriche (controllate da Israele), sia per l’estrema frammentazione della Palestina, i cui territori, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, sono stati ripartiti in tre aree (Oslo II): Area A, sottoposta all’Autorità palestinese, che comprende il territorio di otto città (Ramallah, Nablus, Genin, Tulkarem, Qalqiliya, Gerico, Betlemme e, in parte, Hebron) e di alcuni borghi; Area B, costituita da aree rurali (in maggioranza borghi e villaggi), in cui la gestione amministrativa è dell’Autorità palestinese, ma il controllo del territorio è demandato all’Autorità militare israeliana; Area C, gestita da Israele a livello civile e militare. Tale ripartizione ha generato oltre duecento enclave, i cui abitanti sono obbligati a una sorta di soggiorno coatto perché il Governo israeliano ha disposto la chiusura delle vie di accesso a città e villaggi, oltre alla recinzione, in atto, con alte barriere (progettate senza tenere in considerazione l’impatto ambientale né l’eventuale presenza di giacimenti archeologici). […]