Signori a tavola! E sui gusti non si discute… Vita da Romani

Archeologia Viva n. 102 – novembre/dicembre 2003
pp. 80-82

di Fabrizio Paolucci

Contrariamente a quanto si può pensare se si generalizzano le succulente descrizioni degli autori latini la cucina romana di ogni giorno era semplice e pragmatica fatta di piatti spesso sopravvissuti sino ai nostri giorni

Quando pensiamo alla cucina romana siamo portati a immaginare qualcosa di iperbolico, piatti di inarrivabile raffinatezza, ottenuti con gli ingredienti più strani e pregiati. È una visione sostanzialmente errata, in buona parte dovuta alle stesse fonti antiche che, più volte, si compiacciono di descriverci fastosi banchetti, dove si servono talloni di cammello, uno dei piatti preferiti dall’imperatore Elogabalo (218-222 d.C.), pavoni completi delle loro variopinte piume, oppure maiali – i famosi “maiali di Troia” – farciti di decine di altri animali.

Ma si deve tener conto che queste ricercatezze erano così di frequente ricordate dagli scrittori proprio perché costituivano, ai loro stessi occhi, degli eccessi talmente lontani dal quotidiano, da meritare un ricordo nella storia ufficiale. Nella realtà, la cucina di tutti i giorni era assai più povera e, se vogliamo, appetibile, annoverando fra i piatti più comuni pietanze che ancor oggi sopravvivono sulle nostre tavole, come le salsicce o la polenta. D’altronde, in una società modesta, come quella dei primi secoli della Repubblica (VI-III sec. a.C.), anche l’arte culinaria rispecchiava un mondo contadino e pastorale, poco propenso all’elaborazione di complessi e succulenti manicaretti. Ad esempio, il pane, non lievitato, era fatto in casa semplicemente mescolando acqua e farina, e fatto cuocere sotto la cenere del focolare.

Una descrizione di quale fosse la semplicità di questa cucina agreste è offerta da un poemetto del I sec. a.C., noto come Moretum ed erroneamente attribuito a Virgilio, nel quale è minutamente descritta, con un’attenzione per le cose umili tipica della poesia di gusto alessandrino, la colazione di un contadino. Questi, svegliatosi nelle prime ore del giorno, macina il grano, prepara la sua semplice pagnotta e la mette nel sacco da portare sui campi, insieme a una fetta di formaggio all’aglio (detto, appunto, moretum), che completa il misero pasto. Nella dieta abituale di un lavoratore, come il contadino del Moretum, non poteva, comunque, mancare l’altro pilastro della cucina povera: la polenta. Si trattava, però, di una polenta sensibilmente diversa dalla nostra, ottenuta dalla spelta, un grano duro che era macinato completo della sua buccia. Ne risultava un impasto scuro, vicino alla semola, ricco di crusca e, spesso, degli stessi frammenti di pietra residui della triturazione. Naturalmente esistevano polente più raffinate, ottenute con grani vagliati, attentamente tritati e, per finire, sbiancati con prodotti solforosi (Plinio, Naturalis Historia 18, 112). Ad accompagnare la polenta erano ritenute adatte soprattutto le salsicce di maiale, un binomio che Marziale (Epigrammi 4, 46; 8, 13 ecc.) giudica migliore di ogni altro raffinato manicaretto. […]