Pompei, Ercolano, Oplontis. L’ultima notte del mondo Storie romane da un'eruzione

Archeologia Viva n. 100 – luglio/agosto 2003
pp. 18-41

a cura di Fabrizio Paolucci

La grande mostra in corso a Napoli è un’esposizione completa e aggiornata sull’eruzione vesuviana del 79 d.C.
Un disastro immane che coinvolse decine di migliaia di persone i cui ultimi drammatici momenti di vita è possibile ricostruire ora per ora grazie a una metodica integrazione di dati letterari archeologici e vulcanologici

Erano trascorsi quasi trent’anni da quei giorni tremendi di fine agosto 79, ma il ricordo di ciò che era accaduto a Pompei, Stabia ed Ercolano era stampato a vita nella mente di Plinio il Giovane, brillante avvocato e funzionario imperiale. Nel 106 d.C., su richiesta dello storico Tacito, desideroso di avere a disposizione la testimonianza di uno spettatore di eccezione, Plinio si accinse a riportare in un accurato e meticoloso racconto (Epistole VI, 16, 20) le terribili vicende alle quali, appena diciottenne, aveva avuto modo di assistere insieme alla madre da un luogo di osservazione privilegiato, la base navale di Miseno (sulla costa flegrea vicino a Baia), comandata dallo zio Gaio Plinio Secondo, a noi meglio noto come Plinio il Vecchio.

La distanza che separa Miseno dalla cima del Vesuvio, trenta chilometri in linea d’aria, consentiva di seguire in relativa sicurezza tutte le fasi di un’eruzione che, con la sua pioggia di ceneri e pomici e le colate piroclastiche, in meno di ventiquattrore trasformò in deserto quella che era stata una verde regione disseminata di città e ville. Ma per un naturalista ed enciclopedista curioso com’era lo zio anche Miseno era troppo lontana dal teatro degli eventi per ricavare una descrizione accurata della prima eruzione vulcanica alla quale, con ogni probabilità, assisteva in vita sua. In effetti, dalla base flegrea non era stato possibile accorgersi dei primi segni dell’eruzione, che sin dal mattino del 24 agosto, fra le nove e le dieci, con piccole esplosioni e limitate fuoriuscite di magma aveva scosso le pendici meridionali e orientali del Vesuvio.

Soltanto coloro che stavano nelle ville alle falde del vulcano ricoperte di vigneti, come quelle messe in luce da Terzigno, si accorsero di questa prima fase dell’eruzione, che, probabilmente, passò inosservata anche nella non lontana Pompei, i cui abitanti, ormai da oltre vent’anni, convivevano con sconvolgimenti tellurici provocati dal Vesuvio. Possiamo, quindi, solo immaginare lo sgomento che calò sulle città e i paesi dell’agro pompeiano ed ercolanense intorno alle tredici di quello stesso 24 agosto, quando «un immenso e repentino fragore, come se i monti si rovesciassero gli uni sugli altri» (Cassio Dione, Historia Romana LXVI 21-23), scosse il vulcano segnando l’inizio della fase esplosiva dell’eruzione e una colonna di fumo e lapilli si levò in cielo per quattordini chilometri, assumendo l’aspetto di una nube ramificata in direzione sud-sudest. […]