Anghiari. Leonardo e la Battaglia Rinascimento in Toscana

Archeologia Viva n. 93 – maggio/giugno 2002
pp. 38-47

di Carlo Starnazzi

Agli occhi del grande genio rinascimentale la guerra era «pazzia bestialissima» in contrasto con la forza apollinea della ragione
Il concetto è alla base di uno dei suoi capolavori pittorici “sepolto vivo” a Firenze in Palazzo Vecchio che prende spunto dallo storico scontro fra le milizie fiorentine e l’esercito visconteo

Nell’ottobre del 1503 Leonardo ricevette da Pier Soderini, gonfaloniere della Repubblica di Firenze, l’incarico di celebrare in Palazzo Vecchio la vittoria ottenuta nel 1440 dall’esercito fiorentino sulle forze milanesi, ad Anghiari, presso Arezzo. In quest’opera l’artista reinterpretava l’evento della guerra come una «pazzia bestialissima», che pur doveva avviare gli uomini al perseguimento di una pacifica convivenza. La furia, l’urlo, la vivida concitazione dei cavalli testimoniano lo scatenarsi delle forze della natura, ma anche la richiesta di una denuncia dei modelli tradizionali che regolano la vita umana e la stessa natura in genere. Occorreva una nuova intelligenza e una rinnovata prospettiva politica, per dischiudere nuovi orizzonti all’esperienza e all’azione politica e civile della città.

Erano stati i recenti fatti della ribellione di Arezzo contro Firenze (1502), superati con un’intensa attività diplomatica e su cui era intervenuto con una celebre relazione (Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati) lo stesso Machiavelli, segretario della Repubblica fiorentina, a riaffermare il valore e la superiorità delle virtù civili rispetto a quelle militari della Firenze repubblicana, la «nuova Atene» che aveva saputo contemperare democrazia e aristocrazia, dar valore alla prudenza rispetto alla prontezza cieca e improvvida dell’agire subitaneo. Lo stesso catalogo della valutazione rinascimentale delle virtù faceva registrare la superiorità della prudentia sulla fortitudo, della ‘prudenza’ sulla ‘forza’, estendendone il valore anche in campo militare.

Nel 1500, il Perugino, nella Sala dell’udienza del Cambio a Perugia, aveva associato la Prudenza alla figura di Quinto Fabio Massimo, il cunctator, il ‘temporeggiatore’ che proprio prendendo tempo aveva salvato la Repubblica romana dall’impeto di Annibale, e già, nel 1338, lo stesso Ambrogio Lorenzetti, nel ciclo de Il Buono e il Cattivo Governo e i loro effetti affrescato nel Palazzo pubblico di Siena, aveva rappresentato la Prudenza come virtù politica necessaria ai governanti, in quanto categoria ideale per il bene comune. L’ancoraggio al mondo della classicità divenne un modello ideale per Leonardo, un mondo che all’artista di Vinci fornì gli esempi di virtù che avevano fatto grande la storia, a cui era necessario restare ancorati, per continuarne il significato in epoca moderna.

Era quanto aveva proposto Michelangelo con la figura eroica del suo colossale David (1504), simbolo della libertà e della lotta antitirannica, ed era quanto Leonardo si apprestava a sostenere, come espressione più alta della sua arte drammatica, nella Battaglia di Anghiari commissionatagli per Palazzo Vecchio, fin dalla realizzazione del gruppo delle due figure di sinistra della scena (l’unica eseguita del progetto di affresco) della Lotta per lo stendardo, così ben curate anche nei dettagli. A esse Leonardo assegnava l’idealizzazione della virtus, del valore antico, l’apoteosi dell’eroe che nell’urto della cavalleria cerca di sostenere e dominare, con fermo dinamismo, la controffensiva degli avversari. Il guerriero di sinistra – a cui tocca un posto di rilievo nella stessa descrizione che della Battaglia fece Giorgio Vasari nella Vita di Leonardo da Vinci anche dopo aver nascosto, nel 1563, l’opera di Leonardo dietro una delle pareti del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio – si torce con la forza delle spalle, in direzione opposta del cavallo in fuga, evidenziando una vitalità che si sprigiona con energia nell’interna torsione della figura, accentuata dalle spirali delle figure zoomorfe dell’armatura.

Proprio nella decorazione delle armi si sviluppa una ricercata mescolanza di allegorie segrete e oscure, che alludono nel loro significato a una docta varietas, a una erudita molteplicità figurativa, finalizzata alla celebrazione dell’eroe. C’è qui, innanzitutto, il richiamo ad Alessandro Magno, al condottiero che nell’antichità si era segnalato per la straordinaria virtù e le cui leggendarie conquiste, celebrate dai pittori Filosseno di Eretria e Apelle, si erano poi radicate anche nell’arte italica e romana, come attesta il mosaico della Casa del Fauno a Pompei, forse copia di un dipinto visto a Roma dallo stesso Plinio il Vecchio (Nat. Hist., XXXV, 10) con la celebre rappresentazione della battaglia fra Alessandro e Dario.

Machiavelli, richiamandosi nel Principe ai condottieri virtuosi, annoverava il Macedone tra i capitani prudenti e di buona fortuna e, nell’Arte della guerra, tra i «principi eccellenti», per le grandiose imprese militari compiute a Granico (334 a.C.), Isso (333 a.C.) e Gaugamela (331 a.C.), dove, sconfitti i Persiani e i mercenari greci, aveva conquistato quella singolare potenza che lo avrebbe condotto, attraverso i secoli e secondo i vari disegni di potere, alla trasfigurazione mitica dell’eroe e a essere oggetto di quella imitatio Alexandri, ‘imitazione di Alessandro’, ispirata al dominio del mondo e perseguita da Ottaviano Augusto a Costantino, dal Medioevo fino alla ripresa erudita della Rinascenza.

Alessandro  Magno, nella profondità del témenos, il ‘recinto sacro’, dell’oasi di Siwa nel deserto occidentale egiziano, era stato riconosciuto dall’oracolo come figlio ed erede di Zeus Ammone che, venerato sotto forma di ariete e aprendo in qualità di segno zodiacale il corso dell’anno, diveniva, in una suggestiva commistione magico-astrologica e filosofica, anche fautore e simbolo del rinnovamento della vita cosmica e della sostanziale energia motrice dell’Universo. L’ariete aveva inoltre come pianeta dominante Marte ed era anche il segno zodiacale dello stesso Leonardo. Nel giovane cavaliere della Battaglia di Anghiari, proprio l’immagine dell’ariete – figurazione leonardesca che sostituisce sul piano iconografico il tradizionale gorgonéion – si correla ai ricci caprini del corsetto, che ben rievocano la presenza tutelare dell’egida, in una materializzazione della potenza divina, sottesa a incutere timore e disseminare ovunque terrore.

Le stesse ammoniti, nella loro figurazione serpentina e in bella mostra sugli spallacci dell’armatura, per Leonardo «discepolo della sperienza», costituivano un evidente richiamo naturalistico alle sue osservazioni scientifiche condotte sul calcare nodulare ammonitico rosso delle Prealpi lombarde, così ampiamente usato a Milano, ma anche un fossile che l’artista poteva benissimo aver osservato sugli Appennini durante i suoi spostamenti tra Toscana, Marche e Romagna nel 1502. Esse riproponevano, in quella straordinaria torsione a spirale come archetipi figurativi, di fronte all’urlo di morte, una riflessione metastorica sul ciclo stesso della vita universale, che si traduce poi nel rapporto della dinamica energia vitale che lega uomo e cosmo, costituente di per sé il fulcro dell’intera macchina dei moti fisici e mentali del dipinto. Il movimento circolare suggerito dalle ammoniti, come idea di totalità e ordine, si combinava quindi con la rotazione del cielo e dell’anno, in un ciclo perfetto, dove tutto si forma e dissolve. Ad esse si associavano le stesse volute a spirale e ombelicate che, riprodotte sugli elmi dei cavalieri antagonisti, risultano tipiche di certi Gasteropodi come le Naticidae. […]