Egitto: le mummie raccontano Imbalsamazione

Archeologia Viva n. 91 – gennaio/febbraio 2002
pp. 38-47

di Ada Amadei

Gli straordinari complessi monumentali del paese del Nilo parlano di imprese e uomini potenti ma i “messaggi” dei corpi fanno a loro modo giustizia perché ci trasmettono dati preziosi sulla vita della gente senza alcuna preferenza sociale

È l’alba al Cairo e non si è preparati allo spettacolo che si offre dall’aereo. Dagli addensamenti nebbiosi che avvolgono la città irrompono le piramidi. Le monumentali sepolture dei primi faraoni sfidano i millenni, a ricordo dei “grandi” che le commissionarono e i cui nomi sono rimbalzati di secolo in secolo. Sembrano sorgere dal passato, dal nulla del deserto, e invece sono dovute al lavoro di migliaia di “piccoli” uomini, passati senza lasciare un ricordo, al pari di un’infinità di altri esseri – contadini, artigiani, pescatori, commercianti, soldati, schiavi – che nell’antico Egitto contribuirono alle fortune dei potenti. Ma di tanta umanità anonima non si è perso tutto. Questi esseri senza gloria e senza nome li possiamo vedere, toccare, esaminare. Sono muti, ma riescono a comunicare con noi tramite i corpi mummificati, aiutandoci, insieme ai “grandi” che li comandarono, a ricostruire la storia. Cos’è accaduto ai loro corpi? Grazie alla disidratazione intervenuta subito dopo la morte si sono completamente essiccati; per alcuni il processo è stato spontaneo, grazie al sommarsi di condizioni ambientali favorevoli, per altri è stato il risultato di complesse manipolazioni.

Al di là dell’esigua fascia verdeggiante lungo il Nilo si estende il deserto più torrido del mondo e l’Egitto ne occupa una buona parte. In epoca predinastica (prima del 3000 a.C.) le sponde del fiume apparivano disseminate di villaggi agricoli con qualche agglomerato più consistente. A quel tempo gli egiziani seguivano rituali di seppellimento piuttosto semplici: componevano i morti in posizione rannicchiata, li avvolgevano in un sudario, in una pelle, in una stuoia, li deponevano in fosse scavate nel deserto, ponevano alcuni oggetti personali accanto al defunto e infine ricoprivano tutto con ciottoli o sabbia. Così si mummificarono i corpi dei primi egiziani.

L’Egitto fu poi dominato da una lunga serie di monarchi assoluti, adorati come divinità. Questi cercarono di imporsi all’attenzione dei posteri con strutture funerarie sempre più complesse e grandiose, che custodissero i loro corpi e tramandassero la loro memoria. Ma nelle camere mortuarie in cui veniva sigillato il sarcofago non si verificarono più quelle condizioni ideali alla mummificazione che si realizzava nella sabbia del deserto e, poiché una profonda fede religiosa imponeva la conservazione dei corpi dopo la morte, si escogitarono delle soluzioni per ottenerne artificialmente il mantenimento. I primi tentativi sembrano risalire alla II o III dinastia (circa al 2700-2600 a.C.) e, come tutti gli esperimenti, dapprima non ebbero un esito soddisfacente perché i corpi non si conservavano a lungo oppure si mantenevano integri solo in parte. In seguito i procedimenti imbalsamatori si fecero più sofisticati, fino a raggiungere il massimo nel Nuovo Regno (1550-1075 a.C.). L’uso dell’imbalsamazione perdurò in Egitto fino in epoca romana, quando vennero adottate tecniche diverse e forse meno accurate di quelle  dell’epoca d’oro. La pratica cessò con la conquista araba nel VII secolo.

Fra i popoli antichi gli Egiziani non furono né i primi né gli ultimi a effettuare l’imbalsamazione dei defunti, ma in quest’arte rimasero maestri. I procedimenti usati sono noti grazie allo storico greco Erodoto (V sec. a.C.) e alla dettagliata trattazione in due papiri, conservati al Louvre e al museo del Cairo, copie del I sec. d.C. di altri riferibili al Nuovo Regno. I procedimenti imbalsamatori non furono sempre uguali. Molto dipendeva dalle disponibilità dei committenti e dall’abilità dell’imbalsamatore, come dalla moda dei vari periodi o dalla reperibilità dei materiali. Il trattamento era complesso, dispendioso e dapprima ne godettero solo i faraoni con i loro familiari; in seguito, sia per motivi religiosi che per un fatto di costume, la pratica si diffuse verso il basso della scala sociale. Naturalmente solo i più abbienti si permettevano gli imbalsamati più esperti, unguenti pregiati, sostanze aromatiche raffinate, elementi dai quali dipendevano la buona riusata dell’imbalsamazione e l’incorruttibilità del corpo (ma, a volte, l’eccesso di resina e unguenti sui corpi regali si è rivelato dannoso per la conservazione…).

Vediamo ora con quali modalità avveniva un’imbalsamazione “di prima classe”. Il morto veniva disteso si una tavola leggermente inclinata, con scanalature laterali che convogliavano i liquami cadaverici in un vaso a terra. Innanzi tutti gli imbalsamatori lavavano e radevano il corpo; poi procedevano all’ablazione del cervello con appositi strumenti uncinati che penetravano nelle narici e, sfondando l’osso etmoide, giungevano fino alla massa cerebrale, che, in tal modo, veniva estratta pezzo a pezzo. Talvolta, invece, si asportavano i globi oculari per estrarre il cervello attraverso le orbite. Subito dopo si effettuava l’eviscerazione tramite un piccolo taglio verticale sul lato sinistro dell’addome, attraverso il quale venivano prelevati gli organi interni. Con l’eliminazione delle parti molli, nelle quali è più viva l’attività batterica, si blocca momentaneamente la decomposizione del corpo, che però doveva essere sottoposto al più presto a disidratazione.

Si faceva allora ricorso al natron, un carbonato di sodio corrispondente al prodotto oggi in commercio con il nome di soda, che ha la prerogativa di sciogliere i grassi e facilitare l’eliminazione dei liquidi dai tessuti. Il corpo del defunto, sempre disteso sulla tavola imbalsamatori, veniva ricoperto da uno spesso strato di natron sotto cui rimaneva per una quarantina di giorni; quindi, raggiunta la completa disidratazione, era accuratamente lavato. A questo punto, tecnicamente, la mummificazione era terminata. L’introduzione nel corpo di resine e balsami doveva solo garantirne il mantenimento. Anche i visceri estratti venivano lavati, posti sotto natron, avvolti in bende e, a seconda delle epoche, reintrodotti nella cavità addominale o posti fra le gambe del defunto oppure sistemati dentro vasi canopi, che venivano deposti accanto al sarcofago. […]