Archeologia Viva n. 88 – luglio/agosto 2001
pp. 82-89
di Fabrizio Paolucci
L’incontenibile popolo di Archeologia Viva ha partecipato in massa al 3° Incontro nazionale
che questa volta ha coinciso con i venti anni dalla fondazione della rivista
L’evento è stato celebrato nel nome della scientificità e della divulgazione archeologica alla presenza delle oltre tremila persone che nella lunga giornata congressuale sono arrivate al palacongressi di Firenze
Premesse peggiori erano difficilmente immaginabili. Un improvviso sciopero ferroviario, unito a una ritardata “domenica a piedi” con il conseguente blocco totale delle auto, sembrava mettere in serio pericolo la riuscita del 3° Incontro nazionale di Archeologia Viva, svoltosi di recente al Palacongressi di Firenze. Forse solo con il ricorso all’aruspicina etrusca, come ha scherzosamente notato Piero Pruneti nel discorso di apertura, si sarebbe potuto prevedere una simile congiuntura e suggerire il rinvio della manifestazione. Tuttavia, quando il direttore pronunciava queste parole, alle nove di mattina, i milleduecento posti dell’auditorium non erano tristemente deserti, ma già gremiti da una folla proveniente da ogni parte d’Italia, in barba a ogni ostacolo. Lo “zoccolo duro” dei lettori di Archeologia Viva, messo a dura prova, aveva risposto dimostrando un grande spirito di sacrificio al servizio del proprio autentico desiderio di partecipazione al dibattito e all’informazione archeologica. L’entusiasmo dei mille fedelissimi della prima ora – diventati duemila e poi tremila nell’arco di questa lunga giornata terminata alle otto di sera – è stato ripagato dalla varietà dei temi trattati, dalla qualità degli interventi e dal prestigio degli oratori, nonché da un’organizzazione tecnica impeccabile, che hanno fatto di questo 3° Incontro il modo migliore per celebrare, «senza alcuna retorica e nello spirito partecipativo che ha sempre contraddistinto Archeologia Viva» – così ha concluso Piero Pruneti la sua introduzione – i primi venti anni di vita della rivista, fondata dallo stesso Pruneti nel 1982. In attesa degli Atti, riassumiamo ora il contenuto delle relazioni.
Un contratto del III sec. a.C.
Se il 1985 fu detto l’anno degli Etruschi, per il numero delle iniziative dedicate alla cultura di questo popolo, il 2001 può essere considerato il suo degno erede, con le esposizioni di Bologna e Venezia che hanno riacceso l’interesse del grande pubblico. Ovvio, quindi, che la relazione di apertura sia stata dedicata a un’importante scoperta per la conoscenza della lingua etrusca, la Tavola di Cortona. Francesco Nicosia, soprintendente archeologo in Toscana all’epoca della scoperta, e Luciano Agostiniani, docente di Glottologia all’Università di Perugia, ai quali spetta il merito di aver portato alla conoscenza del mondo scientifico la più lunga iscrizione in etrusco trovata nel XX secolo, hanno illustrato il significato e la funzione di questo documento. L’oggetto, giunto fortunosamente nelle mani dei funzionari dello Stato, è una piccola lamina bronzea, iscritta sui due lati, ritualmente rotta in otto pezzi. Nonostante la perdita di uno dei frammenti, si è comunque giunti a una comprensione di massima del testo. Com’è noto, l’etrusco è facilmente leggibile, ma assai meno intellegibile, dato lo scarso numero di parole di cui conosciamo il significato. Nonostante questo, si è potuto proporre per la nostra tabula una cronologia circoscritta (fine III-inizi II sec. a.C.) e stabilire il luogo in cui fu redatta (a Cortona, in provincia di Arezzo), grazie sia alla grafia, caratterizzata da peculiarità tipiche della zona, sia al fatto che sulla tavoletta viene nominato il lago Trasimeno, all’epoca parte integrante del territorio cortonese. Si è anche identificato l’argomento trattato, per quanto, come succede sempre per i testi etruschi di lunghe dimensioni, sia impossibile, al momento, giungere a una traduzione letterale. L’iscrizione riporta un contratto stipulato fra l’aristocratico Petru Schevas e un gruppo di persone a cui vengono ceduti dei terreni. Il testo costituisce anche un importante documento storico, essendo una testimonianza diretta di un periodo nel quale le oligarchie etrusche cercarono di placare i moti sociali smembrando i grandi latifondi in unità fondiarie più piccole, favorendo così la nascita di quel fitto popolamento rurale che anche l’archeologia ci attesta.
Una fabbrica di reliquie
È dagli anni cinquanta che Edda Bresciani “scava” in Egitto, ma è la grande oasi di El Fayum, nel deserto a occidente del Nilo, che calamita ormai da tempo gli interessi di questa grande egittologa italiana, docente all’Università di Pisa. Qui le missioni Bresciani hanno avuto il merito di svelare al mondo scientifico tombe del Medio Regno (1994-1650 sec. a.C.) – in una regione dove non si riteneva fossero monumenti così antichi -, una cappella per il culto dinastico di tarda età tolemaica e numerose chiese paleocristiane. A Firenze Edda Bresciani ha presentato la recentissima identificazione di una vera e propria fabbrica di reliquie, connessa a un grande tempio del Medio Regno, scavato già negli anni Trenta, a Medinet Madi. Qui è stato messo in luce un complesso ottimamente conservato (in alcuni casi si sono preservate addirittura le coperture a volta), costituito da numerosi edifici di cui uno, al centro, era dotato di una singolare struttura, dov’è stata trovata una sorta di forno che conteneva la mummia del coccodrillo sacro, ancora posata sui rulli che consentivano di estrarla per le processioni. Ma addirittura, negli ambienti adiacenti, sono state trovate delle vasche basse con ancora nascoste nella sabbia uova di coccodrillo. Qui si allevavano dunque, a decine, i coccodrillini che, uccisi e imbalsamati, erano poi venduti come preziose reliquie-souvenir ai pellegrini dell’epoca.
I primi europei
I temi affrontati hanno sottoposto gli ascoltatori a una buona ginnastica mentale. Al salto geografico è seguito, con la relazione di Giacomo Giacobini, docente di Anatomia all’Università di Torino, un notevole salto cronologico. L’illustre studioso ha svelato al popolo di Archeologia Viva il volto e le abitudini del primo vero europeo: l’uomo di Neandertal. Questa specie umana, padrona incontrastata del continente fra 600.000 (quando iniziano a comparire le prime caratteristiche anatomiche) e poco più di 30.000 anni fa, si sviluppò con propri caratteri che la resero sensibilmente diversa dall’antenato dell’Homo sapiens, il Cro Magnon, arrivato sul Continente circa 40.000 anni fa. Basandosi sui resti scheletrici e utilizzando tecniche sviluppatesi nell’ambito della medicina legale al servizio della criminologia, è stato possibile restituire un volto a questi primi europei, sul cui grado di bestialità o umanità la scienza è ancora divisa: alcuni studiosi, soprattutto di scuola americana, hanno proposto la figura di un neandertaliano ancora sfruttatore di carogne, più che cacciatore, e incapace di esprimersi con un linguaggio complesso, mentre gli europei tendono a sottolinearne gli aspetti, indubbiamente evoluti, che caratterizzano la cultura neandertaliana. In primo luogo è da rilevare, infatti, il notevole numero di sepolture intenzionali note per questa specie, che, pur non essendo le più antiche (questo primato spetta ai primi Homo sapiens, le cui tombe risalgono a 100.000 anni fa), testimoniano di un culto per i morti diffuso almeno a partire da 60.000 anni fa. Ai Neandertal, inoltre, si deve attribuire anche un’industria litica raffinata e complessa, oltre alla conoscenza e all’uso del fuoco. Da un punto di vista tecnologico, dunque, i neandertaliani non erano inferiori ai Cro Magnon che, a partire da 40.000 anni fa, sciamarono da Oriente verso l’Europa. Difficile immaginare, quindi, il motivo del tramonto dei neandertaliani, che, tuttavia, non sparirono all’improvviso, ma, per un lungo periodo, sino circa a 30.000 anni fa, convissero con i Cro Magnon, sino a estinguersi.
Nuova luce sul Medioevo
È toccato a Riccardo Francovich, il padre dell’archeologia medievale italiana, docente all’Università di Siena, far rivivere i “secoli bui” con l’ausilio di straordinarie ricostruzioni computerizzate (curate da Marco Valenti), incentrate sul fenomeno della nascita e dell’affermarsi dei castelli feudali. Ancor oggi il paesaggio italiano, specie nel centronord, è quasi uniformemente caratterizzato dalla presenza di castelli, che, peraltro, costituiscono solo una frazione di quelli esistenti in antico. Basti pensare che una ricerca sul territorio toscano condotta dall’Università di Siena ha individuato oltre quattromila castelli, fra edifici ancora esistenti e quelli noti solo dalle fonti o da testimonianze archeologiche. Al di là del dato numerico, la ricerca promossa da Francovich è andata oltre, cercando di ricostruire, attraverso lo scavo, e di restituire visivamente, grazie alle ricostruzioni computerizzate, la nascita della curtis, cioè della cellula originaria da cui sono nati i castelli. In origine essa altro non era che la dimora fortificata del signore, cinta da palizzate, circondata dalle case dei contadini e dai magazzini delle derrate (le cosiddette long house), sempre realizzati in legno. Questa “civiltà del legno”, com’è stata definita la cultura medievale dei primi secoli, è stata per decenni completamente ignorata perché, semplicemente, non riconosciuta in occasione degli scavi. Soltanto ora, grazie a nuove tecniche di investigazione, ma, soprattutto, grazie a una nuova sensibilità archeologica, questo medioevo “oscuro” ha ripreso vita. Così gli scavi condotti da Francovich a San Silvestro di Campiglia (Li), a Poggibonsi (Si), a Scarlino (Gr)… hanno consentito di dare forma ai primi castelli in legno del IX e X secolo, antenati di quelle possenti costruzioni in pietra che segneranno il panorama dell’Italia medioevale. Attraverso il morfing (il procedimento computerizzato mediante il quale si visualizzano in pochi secondi i secolari processi di trasformazione edilizia e ambientale di un territorio) si sono succedute dinanzi ai nostri occhi le immagini della genesi di grandiosi castelli, oppure lo sviluppo di un quartiere urbano di Siena, quello dell’ospedale di S. Maria della Scala, dove, fra l’età romana a quella medioevale, si è passati da una mansio (stazione di posta) lungo la via Cassia allo sviluppo di un quartiere di abitazioni che divenne, infine, uno dei più grandi ospedali per pellegrini lungo la via Francigena.
A ricordarci l’importanza degli strumenti della tecnologia per una sempre più ampia sensibilità archeologica è stato anche Dario Di Blasi, direttore della Rassegna del cinema archeologico di Rovereto, presentando un bellissimo documentario di Steffen Böttrich, I faraoni neri. Di Blasi ha anche messo in guardia sui rischi di una divulgazione di massa semplicistica, legata alle esigenze di audience che, troppo spesso, troviamo nei nostri programmi televisivi.
La morte di Gilgamesh
Nell’udire le parole indignate con cui Giovanni Pettinato, noto studioso e docente di Assirologia alla Sapienza di Roma, ha condannato il persistere delle sanzioni verso l’Irak (solo due giorni prima del convegno c’era stato un bombardamento su Bagdad), non poteva non venire in mente l’allarme che già Paolo Matthiae aveva lanciato dallo stesso podio nel precedente incontro fiorentino di Archeologia Viva. In due anni, purtroppo, niente è cambiato e l’Irak, uno dei paesi archeologicamente più ricchi del Medio Oriente, costituisce ancora una terra di ricerca off-limits non soltanto per le missioni estere, ma per gli stessi iracheni. Il fatto che Nord e Sud del paese siano tagliati fuori dal controllo delle autorità governative crea la condizione ideale per il proliferare dell’illegalità e, quindi, anche degli scavi clandestini. È così che sono giunte sul mercato migliaia di tavolette inscritte, fra cui l’intero archivio dell’agricoltura della città di Umma, risalente alla III dinastia di Ur, che Giovanni Pettinato ha potuto riconoscere a Londra, in casa di antiquari. Di fronte a questa situazione, gli archeologi iracheni hanno fatto di necessità virtù e hanno concentrato gli sforzi nell’unica zona nella quale possono operare, quella centrale. Qui le ricerche hanno comunque condotto a scoperte sensazionali e di cui Pettinato, incaricato dal governo iracheno di studiare i testi cuneiformi rinvenuti, ha dato sensazionali anticipazioni. In particolare una missione irachena che ha scavato nell’area dell’antica città di Meduran (oggi Tell Hadad, trenta chilometri a nord di Bagdad) ha portato in luce una biblioteca privata integra, costituita di due sezioni: la prima con testi magici (formule di scongiuro, pratiche divinatorie ecc.); la seconda con testi letterari e mitologici. Tale scoperta riveste un’importanza eccezionale per la conoscenza della letteratura sumera, anche perché, fra le numerose opere, è venuto in luce un capitolo sinora ignorato della celeberrima saga di Gilgamesh. In particolare, si tratta della sezione dedicata alla morte del più celebre eroe dell’epos mesopotamico, al quale, nonostante la natura semidivina e i suoi meriti verso gli uomini e gli dèi, venne negata l’immortalità. Il Gilgamesh che troviamo in questo nuovo capitolo della sua saga è un eroe ormai rassegnato al suo destino. In seguito a un sogno, che, per crudeltà della sorte, solo il figlio sarà in grado di interpretare correttamente, Gilgamesh capisce che il suo destino di mortale è immutabile. L’eroe, quindi, fa deviare il corso dell’Eufrate e fa costruire, sul suo fondo, un’immensa tomba, nella quale, volontariamente, scenderà con la moglie, la guardia personale e i servi. Questa scoperta, oltre a restituirci una splendida opera letteraria, consente di capire meglio anche situazioni che ci erano note dalle scoperte archeologiche, ma, che, in assenza del dato letterario, non erano state pienamente comprese: è il caso della ricchissima tomba reale che fu scoperta dagli inglesi a Ur negli anni Trenta, dove furono trovati sepolti il re, sua moglie, le ancelle e le guardie del corpo, in modo tale – ma lo capiamo soltanto ora – che il sepolcro del sovrano e della sua corte ricordasse il cerimoniale di morte di Gilgamesh descritto dal mito.
Rivivere la storia
Con l’archeologo Valerio Massimo Manfredi, ormai famoso romanziere, sono state affrontate le ragioni per le quali uno studioso dell’antichità decide di dedicarsi alla narrativa, incontrando un successo senza paragoni in Italia. Il primo passo è stato definire cosa sia un libro come Alexandros, l’opera di Manfredi più venduta: non è un romanzo storico, perché la trama non è di invenzione ma integralmente basata sulle fonti letterarie, epigrafiche e archeologiche; non è neppure storia romanzata, poiché non racconta la grande storia attraverso il filtro della piccola storia quotidiana, ma è qualcosa di diverso che l’autore ha definito come una sorta di realtà virtuale. Si tratta, cioè, del tentativo di ricostruire non soltanto le vicende, ma anche le passioni, gli umori, i caratteri, immedesimandosi negli eventi che la storia ufficiale ci tramanda. L’Alessandro di Manfredi acquista le caratteristiche di un personaggio reale che agisce seguendo in parte la razionalità e in parte l’istinto. Così sono divenute chiare al lettore, ma anche all’autore, decisioni e scelte che, agli storici tradizionali appaiono oscure o, comunque, suscettibili di diverse interpretazioni. È il caso dell’incendio del palazzo di Persepoli voluto da Alessandro, ma di cui mai si è riusciti a chiarire i motivi. Ebbene, nel romanzo, la scelta diviene la logica conseguenza di considerazioni militari e politiche, una scelta forse meditata da tempo, forse addirittura prima di conquistare Persepoli. Ecco che l’identificarsi dell’autore nel suo personaggio ha consentito di dare una nuova chiave di lettura a un evento storico, una diversa esegesi che Manfredi si ripromette di dimostrare anche a livello scientifico. Questa fortunata formula narrativa è stata, però, temporaneamente abbandonata da Manfredi che, nell’ultima sua opera, La mia Akropolis, tenta piuttosto di far rivivere la storia e la civiltà ateniese al suo zenit attraverso un linguaggio immediato e vivace, cercando di restituirci la vita e l’aspetto di una città troppo spesso vista solo attraverso gli occhi degli archeologi e degli antiquari.
La difesa di Ustica
Dalla storia narrata e rivissuta, si è tornati alla realtà dei nostri giorni, che, nel campo, dell’archeologia, non significa soltanto, ricerca e scoperte, ma anche un sistematico lavoro di tutela e valorizzazione. È questo l’impegno che si è assunto Attilio Licciardi, sindaco di Ustica, ormai una presenza fissa agli incontri di Archeologia Viva (dati gli storici rapporti fra la rivista e l’isola), insieme al direttore della Riserva marina, Roberto Sequi. Il lavoro svolto finora dai politici e dagli amministratori usticesi è un esempio concreto dei risultati ai quali, anche una comunità piccola come quella di Ustica, può giungere nel campo della tutela del patrimonio, ambientale e storico archeologico.
Tesori dal mare di Camarina
All’archeologia subacquea, un settore di ricerca da sempre seguito con attenzione da Archeologia Viva, è stato dedicato l’intervento di Giovanni di Stefano, direttore della Sezione beni archeologici della Soprintendenza di Ragusa, che ha presentato una vera e propria “miniera archeologica sottomarina” (bellissime le immagini di Mario Russo). Infatti, i mari, ma sarebbe più giusto dire i bassi fondali, antistanti Camarina hanno restituito negli ultimi anni “tesori” appartenenti a relitti delle epoche più diverse, dall’età arcaica all’Ottocento. Per molto tempo si è pensato che questi fondali fossero inadatti alla conservazione di reperti archeologici, vuoi per la forza delle correnti, vuoi per il saccheggio al quale gli oggetti sarebbero stati esposti. Il mare di Camarina ha invece sorpreso tutti, perché a profondità minime (raramente più di cinque metri) sono venuti alla luce decine di relitti con i resti del carico. Le scoperte sono legate proprio alle forti correnti che interessano quel tratto di costa ragusana, specie in occasione delle mareggiate, e che, letteralmente, svelano distese di materiali che poi, altrettanto rapidamente, ricoprono. Proprio sfruttando queste condizioni ambientali gli archeologi e i subacquei del Museo regionale di Camarina sono riusciti a documentare un numero impressionante di oggetti: elmi arcaici e di età romana, anfore, colonne in marmo provenienti dalle cave del Nord Africa, migliaia di monete… Particolare interesse ha suscitato la recente scoperta del relitto detto “di Mercurio”, del I sec. d.C., che ha restituito, oltre a una statuetta del dio, un ricchissimo corredo bronzeo, probabilmente appartenente al ricco proprietario della nave.
Un monumento poco noto della Sardegna nuragica
Parlare di archeologia in Sardegna significa, quasi sempre, riferirsi ai nuraghi. Del resto queste singolari costruzioni, monumenti simbolo dell’età del Bronzo, punteggiano l’intera isola. Ma questa volta non sono stati i nuraghi a costituire il soggetto dell’intervento di Maria Ausilia Fadda, archeologa della Soprintendenza di Sassari e Nuoro, che invece ha illustrato un’altra tipologia architettonica, contemporanea ai nuraghi, ma assai meno nota: i templi a megaron. Si tratta di strutture a pianta rettangolare, spesso circondate da un temenos (muro perimetrale) e dotate di un atrio fiancheggiato da panchine per la deposizione degli ex-voto. Questi edifici, la cui destinazione sacra era già chiara ai primi scopritori, sono relativamente frequenti sull’isola, anche se, per lungo tempo, la loro cronologia è stata oggetto di accese discussioni. La regolarità dell’impianto, infatti, aveva indotto celebri archeologi, come Doro Levi, a ipotizzare una cronolgia di età fenicia (V sec. a.C.) o addirittura romana, mentre soltanto grazie a scavi recenti è stato possibile confermarne la datazione in età protostorica (XIII-X sec. a.C.). Proprio a Maria Ausilia Fadda – ben nota ai lettori di Archeologia Viva per gli articoli con cui puntualmente divulga le proprie scoperte – spetta il merito di aver approfondito la questione, portando a nostra conoscenza nuovi esempi di tali strutture templari. Fra queste spicca il tempio detto della Domu d’Orgìa, la ‘casa’ di una strega-sacerdotessa posta sulle montagne della Barbagia di Seùlo. In un’altra località, a Bitti, sono noti ben quattro templi a megaron. Qui gli edifici sono collegati a vasche lustrali o a complesse strutture labirintiche; di particolare interesse, in un caso, la trasformazione del tempio in cenotafio, in una tomba cioè priva di deposizione e forse dedicata a un eroe, al cui interno furono sigillati bronzi, ambre, punte di lance e ceramiche. Molto, quindi, si conosce ormai di questi edifici sacri, che per lungo tempo hanno costituito una zona d’ombra negli studi sulla civiltà nuragica, anche se restano dei punti oscuri. Uno di questi è costituito da alcuni ambienti, privi di finestre o porte, adiacenti al tempio a megaron di Villagrande Strisàili, nel Gennargentu. L’unico accesso è una piccola apertura alla base, così da far pensare a dei forni di fusione, come suggerisce anche il ritrovamento, sempre nello stesso sito, di barre di stagno, le prime note nella Sardegna nuragica. La scoperta del prezioso metallo, necessario per realizzare la lega del bronzo, conferma nelle aree sacre la presenza di officine per la produzione di quei bronzetti votivi che costituiscono la manifestazione più celebre e compiuta della civiltà nuragica.
Il mistero svelato dei Nasca
L’ultimo oratore della giornata, Giuseppe Orefici, direttore del Cisrap (Centro studi e ricerche archeologiche precolombiane), appena tornato dall’isola di Pasqua, sembrava quasi incarnare l’ideale letterario e cinematografico dell’archeologo, impegnato a scavare in luoghi lontani e misteriosi, intere città perdute… Eppure questo è esattamente quel che ha fatto e continua a fare uno degli archeologi italiani più noti a livello internazionale nel campo precolombiano. Orefici ha svelato a una platea affascinata il mistero dei Nasca, la cui cultura fiorì ai margini dei deserti peruviani fra il 500 a.C. e il 500 d.C. I Nasca sono noti a tutti per gli immensi geoglifi, raffiguranti uccelli, scimmie, felini, grandi piste, che ricoprono il deserto peruviano e che hanno ispirato tanta letteratura ufologica. I Nasca descritti da Orefici attraverso gli oggetti della loro vita quotidiana, come le ceramiche variopinte (le più belle dell’America precolombiana) o le stoffe ricamate, mostrano, invece, il volto umano e storico di una complessa società teocratica, che dominava uno stato di vaste proporzioni (oltre 600 chilometri di lunghezza per 300 di larghezza). Al centro di questo stato sorgeva un’immensa capitale cultuale, Cahuachi, interamente costruita in mattoni crudi. Non un’abitazione contaminava questo vastissimo agglomerato formato solo di templi a gradoni ed edifici sacri. Gli scavi condotti da Orefici hanno dimostrato che tutta l’area fu abbandonata volontariamente intorno al 300 d.C., ben prima quindi della rovina dei Nasca causata da invasioni di popolazioni esterne. Come hanno suggerito gli scavi, i templi di Cahuachi sarebbero stati sepolti dagli stessi Nasca dopo ripetute calamità naturali, quali un’inondazione di proporzioni bibliche seguita da un terremoto: per una società come quella, in cui ogni aspetto della vita aveva un risvolto sacro, questo fu sufficiente per mettere in crisi la teocrazia che aveva dominato per secoli e a spingere i devoti verso nuove divinità, alle quali venne, difatti, consacrata una nuova area sacra. Gli immensi geoglifi (che replicano in forma monumentale i disegni della ceramica) erano quindi solo un aspetto dell’onnipresente religiosità dei Nasca e, probabilmente, vennero usati come tracciati rituali lungo i quali si svolgevano processioni consacrate alla divinità raffigurata nel disegno. I marziani atterrarono nel deserto del Perù.
Lo spirito su cui si fonda Archeologia Viva è quello di un’autentica e “democratica” partecipazione – d’altronde non c’è democrazia senza partecipazione – alla conoscenza e alla vita di una disciplina i cui cultori troppo spesso rendono enigmatica attraverso un linguaggio da iniziati, favorendo così quell’allontanamento dalle evidenze scientifiche che si riscontra in ampi strati dell’opinione pubblica, a dispetto di una sempre più vasta (talvolta apparente) diffusione della cultura. Questo è anche lo spirito e la ragione del successo degli incontri di Archeologia Viva. «Ogni rivista ha i lettori che si merita» ha concluso Pruneti congedando una sala incredibilmente ancora piena alle otto di sera: «Ormai lo sapete. Ci rivedremo fra due anni, sempre qui, nel 2003».