La villa di Ovidio a Roma Obiettivo su...

Archeologia Viva n. 87 – maggio/giugno 2001
pp. 76-80

di Roberto Bartoloni

Presso Ponte Milvio sono tornate in luce consistenti strutture con pavimenti a mosaico che quasi sicuramente facevano parte della panoramica residenza del poeta prima di essere confinato sulle rive del Mar Nero

Il mio animo non desidera i perduti campi e le mirevoli campagne della terra peligna, né i giardini, posti su colli ricchi di pini, da cui si vede la via Clodia unita alla Flaminia: «Non meus amissos animus desiderat agros/ ruraque Paeligno conspicienda solo/ nec quos piniferis positos in collibus hortos/ spectat Flaminiae Clodia iuncta viae».

Così, nelle sue Epistulae ex Ponto, il grande e sfortunato poeta latino Ovidio Nasone (Publius Ovidius Naso, 43 a.C. – 17 d.C.) dal suo esilio di Tomi sul Mar Nero rimpiangeva, fingendo il contrario, la campagna intorno alla natia Sulmona e i giardini dei suoi possedimenti appena fuori Roma, posti su colli coperti di pini e dai quali poteva vedere il bivio fra la via Flaminia e la Clodia-Cassia. E che sull’altura a nordest di Ponte Milvio, raffigurata per secoli verdeggiante e coronata da antichi casali come sfondo delle innumerevoli vedute del ponte, fosse situata una villa appartenente a Ovidio era dato per certo da vari archeologi ottocenteschi interessati alla Campagna Romana, primo fra tutti il grande e troppo spesso trascurato Giovanni Antonio Guattani, che nella sua opera Monumenti Sabini (1828) ne ricorda gli horti, cioè i ‘giardini’, a proposito dei quali ammonisce i suoi contemporanei sottolineando come di essi «poco se ne incaricano i moderni topografi, e negli itinerari ordinariamente li copre vergognoso silenzio».

Ma sorte peggiore di un vergognoso silenzio sarebbe toccata alla collina e ai suoi resti archeologici solo un secolo dopo, allorché, a cavallo fra le due guerre, iniziò l’edificazione intensiva della zona, ancora fino agli inizi del Novecento punteggiata qua e là unicamente da casali rurali e ville postcinquecentesche, edificazione che si concluse in modo selvaggio negli anni Sessanta con la devastazione pressoché totale degli strati archeologici della collina stessa, che addirittura finì per essere conosciuta col nome del suo lottizzatore, Alessandro Fleming. Dunque, collina Fleming. Nonostante questo restano ancora alle pendici dell’altura, nel suo versante verso il Tevere, piccole aree risparmiate grazie anche alla presenza della bella Villa Mazzanti e del suo parco.

Proprio nell’ambito del progetto di recupero di ciò che ancora può essere salvato della via Flaminia archeologica nel tratto suburbano, cioè da Ponte Milvio alla località Malborghetto, progetto portato avanti dalla Soprintendenza archeologica statale di Roma nelle vesti del soprintendente aggiunto, Gaetano Messineo, si è verificato un rinvenimento che ha il fascino delle grandi scoperte, calandoci nelle vicende di una delle più famose personalità letterarie dell’antichità, per l’appunto quel Publio Ovidio Nasone che venne esiliato senza pietà dall’imperatore Augusto a causa di un «carmen et error», di ‘una poesia e di uno sbaglio’, causa di cui purtroppo ignoriamo la natura e che costituisce uno dei più curiosi interrogativi della letteratura romana.

In prossimità dell’attuale viale di Tor di Quinto, a un centinaio di metri a destra del moderno Ponte Flaminio, l’Ama (Azienda municipale per l’ambiente del Comune di Roma) aveva deciso di riqualificare l’area occupata da un vecchio capannone industriale per ospitarvi la propria nuova sede. I lavori, iniziati nei primi mesi del ‘99, prevedevano la demolizione del capannone, la costruzione dei nuovi uffici e l’impianto di un grande giardino adiacente ai fabbricati. Com’è di prammatica in questi casi, la Soprintendenza è intervenuta per effettuare indagini preventive al fine di accertare l’eventuale presenza di testimonianze archeologiche, indagini che, fra l’altro, hanno dovuto raggiungere una profondità notevole, poiché in quella zona i detriti scesi dalla collina hanno concorso, con le alluvioni del Tevere, a rialzare moltissimo nel corso dei secoli il livello del terreno (il piano dell’antica via Flaminia e degli antichi argini del Tevere si può oggi osservare proprio di fianco a Ponte Milvio, a ben dieci metri di profondità rispetto al viale di Tor di Quinto). Le indagini, fra l’altro, venivano rese più difficoltose da un consistente affioramento di acqua, dallo stesso Tevere o da una falda della collina. Proprio al livello dell’acqua si sono trovati i primi resti.

Gli archeologi si attendevano ritrovamenti di carattere funerario, quali iscrizioni e resti di mausolei, piuttosto consueti in zone adiacenti a strade consolari: l’attuale viale di Tor di Quinto, infatti, ricalca pressoché fedelmente il tracciato dell’antica Flaminia, che subito dopo Ponte Milvio, venendo da fuori, piegava a destra, distaccandosi dalla via Clodia-Cassia che invece continuava diritta (fino al ponte le strade seguivano un unico tracciato). I lati delle strade consolari, soprattutto vicino alla città, come in questo caso, erano affollati da monumenti funerari, disposti in larghezza anche su più file. È pur vero che ogni tanto la concentrazione delle tombe trovava soluzione di continuità, lasciando spazio a insediamenti residenziali che raggiungevano la strada: troviamo un caso clamoroso proprio nella non lontana zona di Grottarossa, dove una grossa peschiera legata a una villa raggiungeva appunto la strada interrompendo la sequenza delle tombe. Ebbene, per gli archeologi della Soprintendenza è stato subito chiaro che i resti tornati in luce nel luogo destinato a futuro deposito dell’Ama presentavano la stessa situazione: le strutture murarie scoperte, pur ridotte a brandelli (fondazioni di muri, qualche elevato), non mostravano affatto un carattere funerario. […]