Ultimi cacciatori in val Campoluzzo Dentro lo scavo

Archeologia Viva n. 87 – maggio/giugno 2001
pp. 70-75

a cura di Diego E. Angelucci

Questa piccola valle delle Prealpi venete si presenta come un microcosmo dove per qualche migliaio d’anni alla fine dell’età paleolitica trovarono la propria fonte di sostentamento vari gruppi di cacciatori e raccoglitori preistorici

Tra la fine del Paleolitico e il Mesolitico (circa fra 13.000 e 6500 anni fa, in base alle datazioni al radiocarbonio dei reperti recuperati) le bande di cacciatori-raccoglitori già diffuse per l’intero pianeta iniziarono a colonizzare zone mai abitate fino ad allora e in tutta l’Europa si ebbe una prima consistente presenza umana anche nelle aree montane. Vari studiosi legano il fenomeno alla fine dell’ultima glaciazione (würmiana) che, a partire da 15.000 anni fa, liberò vasti territori dai ghiacci perenni.

Il processo del popolamento montano è di grande interesse per capire le modificazioni che portarono, durante la successiva età neolitica, all’acquisizione dell’agricoltura e dell’allevamento. Spesso però la ricerca archeologica paleo-mesolitica si trova di fronte a informazioni limitate e frammentarie; le uniche testimonianze rimasteci di questi antichi gruppi umani consistono, talora, in pochi manufatti litici (oggetti in pietra scheggiata) dispersi nel terreno. Nelle zone montane, inoltre, le tracce degli insediamenti preistorici hanno subìto ingenti processi di modificazione, soprattutto nei siti all’aperto. Si deve perciò operare con grande attenzione, concentrandosi su aspetti quali la ricostruzione dei processi d’alterazione o la distribuzione nello spazio dei resti archeologici. Queste considerazioni stanno alla base del Progetto Campoluzzo, che si propone di esaminare le tracce della presenza preistorica secondo un’ottica territoriale, tenendo conto dell’elevata mobilità delle antiche popolazioni nomadi paleo-mesolitiche. L’area di studio è, appunto, la val Campoluzzo, nelle Prealpi vicentine, al confine con la provincia di Trento.

Le Prealpi venete e le Dolomiti rappresentano una regione eccezionale per la preistoria, grazie alle ricerche condotte dal Museo tridentino di Scienze naturali e dall’Università di Ferrara. L’interesse archeologico per la val Campoluzzo si deve all’individuazione di un sito presso la malga Campoluzzo di Mezzo: una scoperta casuale, anche se il luogo aveva già destato l’attenzione dei ricercatori per la felice posizione in prossimità dei passi fra la val d’Astico e il versante della valle dell’Adige. La Comunità montana Alto Astico e Posina ha sostenuto il programma d’indagine e si è formato così un gruppo di lavoro composto da ricercatori, studenti, membri del Gruppo archeologico Alto Vicentino e appassionati. Dopo le indagini sul sito di Campoluzzo di Mezzo è stata effettuata la ricognizione archeologica dell’intera valle per comprendere le relazioni tra ambiente e popolamento preistorico. La prospezione sistematica ha incluso l’analisi geomorfologica, la descrizione dei terreni e il censimento dei segni dell’uso del territorio in epoca storica (baite, carbonaie, forni per calce…).

Sono stati individuati oltre trenta siti preistorici che hanno restituito manufatti paleolitici, per la maggior parte attribuibili all’Epigravettiano recente (fase del Paleolitico superiore compresa tra circa 13.000-10.000 anni fa), e anche mesolitici. Solo in un sito è stato rinvenuto un frammento ceramico di probabile età medievale. Il ritrovamento più consistente è quello dell’accampamento epigravettiano di Campoluzzo di Mezzo, su un terrazzo di formazione glaciale nei pressi dell’omonima malga. Tale terrazzo è composto da materiali deposti dal ghiacciaio würmiano, coperti da colluvi (sedimenti trasportati lungo il versante dallo scorrimento superficiale) e da loess.

I manufatti paleolitici, originariamente collocati su uno stesso piano, appaiono dispersi su tutto lo spessore del loess. Il loro spostamento si deve a una serie di processi di disturbo, tra cui il più importante è la bioturbazione (rimescolamento del terreno causato dal movimento della fauna del suolo, ad esempio lombrichi, talpe ecc.), come hanno evidenziato le analisi di laboratorio e l’osservazione di campioni del terreno archeologico al microscopio secondo la tecnica detta micromorfologia. Da queste stesse si desume che i cacciatori epigravettiani arrivarono nella zona in una fase a clima semiarido, con ambiente tipo steppa arborata, e che dopo l’abbandono, forse nelle fasi finali del Pleistocene, la località si coprì di una coltre boschiva rimasta intatta fino al disboscamento in epoca medievale. […]