Archeologia Viva n. 84 – novembre/dicembre 2000
pp. 76-80
di Fabio Maniscalco
Un silenzio preoccupante avvolge la sorte del patrimonio storico artistico nel Paese spezzato dalla guerra
Ecco il drammatico reportage curato per “Archeologia Viva” da uno dei massimi esperti per la tutela dei Beni culturali e ambientali nelle aree di crisi
A oltre un anno dalla fine della crisi, la situazione culturale, sociale e politica del Kosovo rimane particolarmente complessa. Nella piccola regione della repubblica Federale Jugoslava sono presenti vari gruppi “etnici” e religiosi, separati, assolutamente non integrati. Troviamo: Kosovaro albanesi di religione musulmana (sono la maggioranza della popolazione e si considerano i soli futuri gestori della vita del paese); Kosovaro albanesi di religione cattolica (assoluta minoranza impotente); Kosovaro serbi di religione ortodossa (parte esigua, costretta in ambiti ristretti e isolati sotto la protezione dei contingenti Kfor – Kosovo Force, a forza militare multinazionale di pace); Slavik-gorans musulmani nell’area di Daragash; bosniaci nell’area di Jupa Region nelle municipalità di Prizren; Rom gypsy di religione musulmana o cristiana.
Dell’originaria economia agricolo pastorale sopravanzano tracce nel paesaggio verde, fertile e pianeggiante, dove si elevano alberi di pioppo, querce e noci maestosi. A eccezione dell’agricoltura, che comunque non è razionalmente organizzata, non risulta in atto alcuna attività produttiva, ma solo una diffusa occupazione di piccolo commercio connesso alle molteplici opere di ricostruzione. Si vede bene che la presenza della forza di pace Kfor e degli amministratori Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e Unmik (United Nation Mission in Kosovo), oltre a garantire la sopravvivenza delle minoranze, la certezza degli stipendi statali e la dotazione dei servizi di base, costituisce, con il suo indotto, la maggiore entrata economica del Paese.
A prima vista alcune città, Prizren, Peja, Pristina, si presentano piene di vita, soprattutto nelle copiose caffetterie all’aperto dove una moltitudine di giovani ravviva l’ambiente. Ma sono ancora tante le case distrutte (fra cui le tipiche culah in pietra), i souk-bazar incendiati, le centrali elettriche, di distribuzione gas e carburanti cannoneggiate, le stazioni ferroviarie danneggiate. Le chiese serbo ortodosse rimaste in piedi, dopo essere state date alle fiamme da estremisti dell’Uck (sigla in serbo per Kla, Kosovo Liberation Army), sono transennate e presidiate da forze Nato. La popolazione cristiano ortodossa residua è costretta in immobili o in villaggi isolati, prefetti dalla Kfor, senza contatto con l’esterno. Gli stessi toponimi serbi sono stati sostituito con quelli kosovaro albanesi: ad esempio, Pec è stata rinominata Peja. Nel complesso sono andati distrutti gli edifici di culto e i simboli architettonici storici caratteristici delle due culture e religioni principali. Lungo le strade si trovano i cimiteri di guerra. Molte sono ancora le zone minate o con ordigni inesplosi.
La pubblica amministrazione è affidata all’organizzazione internazionale Unmik che con la preziosa collaborazione di alcuni esponenti locali, sta tentando di ridare al Paese una struttura burocratica. Nel frattempo si provvede al solo pagamento dello stipendio base degli impiegati statali. Questi, demotivati e annichiliti dal conflitto si lamentano per i soldi e tuttavia sono desiderosi di riprendere a lavorare. Non esistono forse dell’ordine locali, ma solo polizia delle Nazioni Unite. La maggioranza degli autoveicoli circola senza targhe, anche perché di provenienza illecita. La manutenzione delle strade è inesistente.
In tutto questo è evidente come la tutela dei beni culturali non venga nemmeno presa in considerazione. E’ possibile focalizzare quattro fasi, a seguito delle quali il patrimonio culturale del Kosovo è stato distrutto o danneggiato: a) Inizio del conflitto civile tra Serbi e Kosovaro albanesi; b) Bombardamenti della nato in tutta la Repubblica Federale Jugoslava; c) Rientro dei profughi kosovaro albanesi; d) Ricostruzione post bellica.
Durante la prima fase (tra la fine del 1998 e inizi del 1999), che ha avuto carattere di conflitto interno, non si erano riscontrati danneggiamenti di particolare entità a monumenti o a edifici culturali e di culto. La distruzione ha avuto inizio a seguito dell’intervento bellico della Nato (tra marzo e giugno 1999). […]