Il popolo degli ipogei Straordinarie scoperte nella Puglia preistorica

Archeologia Viva n. 82 – luglio/agosto 2000
pp. 32-47

a cura di Bert d’Arragon

Durante l’età del Bronzo un fenomeno grandioso interessò l’antica regione della Daunia: un complesso di spettacolari ipogei scavati nella roccia calcarea del Tavoliere per celebrarvi suggestivi riti legati ai misteri della vita e della morte e come sepolcri collettivi per centinaia di defunti

Imponenti edifici sotterranei, realizzati artificialmente nello spesso banco di roccia calcarea che affiora, fra i trenta e i sessanta centimetri di profondità, sotto il piano di campagna del Basso Tavoliere: ecco gli ipogei della Daunia, riscoperti a partire dal 1987 con metodiche campagne di scavo condotte dalla Soprintendenza Archeologica della Puglia. A Terra di Corte, presso San Ferdinando (Fg), finora sono stati individuati dodici ipogei, cinque dei quali già interamente scavati o in corso di esplorazione (ma il numero è destinato ad aumentare). Nella vicina Madonna di Loreto, alle porte di Trinitapoli (Fg), ne sono stati localizzati altri quattro, tra cui il più grande finora rinvenuto nella zona: l’ipogeo detto “dei Bronzi”. Tutte queste strutture sono databili a fasi non avanzate della media età del Bronzo (Bronzo medio I e II, fra 1700 e 1500 a.C.): la presenza di pomici di origine vulcanica nell’argilla usata per impastare i vasi trovati indica che questi sono stati fabbricati non troppo tempo dopo la violenta eruzione del Vesuvio, detta “di Avellino” , avvenuta tra il 1850 e il 1700 a.C.

L’uso di scavare ipogei funerari nella roccia è antichissimo in Puglia, dove risale alla fine del Neolitico (IV millennio a.C.), con strutture sotterranee di piccole dimensioni, come gli abitati dell’epoca. Ma, a partire dalla media età del Bronzo (XVIII sec. a.C.) si assiste a una forte esplosione demografica e, parallelamente, al moltiplicarsi dell’uso di seppellire i morti negli ipogei da parte di gruppi sociali in espansione.

È in questo particolare periodo di aumento della popolazione e di trasformazioni sociali verificatosi nella media età del Bronzo che, nei territori degli attuali comuni di San Ferdinando e Trinitapoli, fanno la loro apparizione i grandi ipogei. Questi, però, non sono più destinati, come in passato, al solo culto dei morti, ma vengono frequentati come veri e propri templi sotterranei per celebrarvi riti propiziatori: gli ipogei delle antiche terre daune si trasformano ora in templi per comunità, impostate su basi territoriali e non più su rapporti di parentela come un tempo, che manifestano l’esigenza di nuove pubbliche forme di culto, non circoscritte al solo ambito domestico.

L’architettura degli ipogei dauni, che ricorda strutture micenee dello stesso periodo, presenta delle costanti nella ripartizione degli ambienti e nell’utilizzazione degli spazi. Il sistema di accesso comprende più tratti: si inizia con il dromos, consistente in una rampa rettilinea a cielo aperto, stretta e ripida, mai in asse con l’ambiente principale (alcune buche laterali, larghe e profonde, per l’alloggiamento di pali, indicherebbero la presenza di uno stipite in legno o di una tettoia); al dromos segue un primo segmento di corridoio sotterraneo, che costituisce una sorta di stomion, particolarmente allungato e stretto, la cui volta culmina con un’inconfondibile copertura a cupoletta apicale; lo stomion prosegue con un altro segmento di corridoio con semplice volta a botte che immette in un vestibolo; quest’ultimo è distinto dall’ambiente centrale mediante un restringimento delle pareti dove alcuni fori di palo sul pavimento indicano in quel punto l’esistenza di un elemento divisorio ligneo. La grande sala principale presenta al centro della volta un’apertura circolare, idonea a garantire l’aerazione e la fuoriuscita del fumo dei fuochi rituali. Numerose nicchie, spesso disposte in coppie intercomunicanti, e altri ambienti secondari, come un angusto budello terminante con un tortuoso prolungamento cieco in risalita, completano le strutture. Il pavimento è generalmente battuto nel calcare e le pareti presentano superfici scabre e irregolari.

Numerosi sono i segni di culto rilevati all’interno degli ipogei protostorici della Daunia, dove appunto sono state rinvenute molteplici testimonianze dello svolgimento di suggestivi riti legati alla sfera del sacro. Alla base sembra essere il riferimento ai cicli naturali della morte e della rinascita, intesa quest’ultima come assicurazione della fertilità. Le testimonianze dei riti sono particolarmente riconoscibili nell’ipogeo 3 di Terra di Corte, grazie all’integrità del contesto al momento dello scavo. Il pavimento dell’ambiente principale era occupato quasi per intero da piccoli focolari circolari delimitati da pietre, ciascuno dei quali utilizzato per un tempo limitato, a giudicare dallo spessore dei residui. È possibile che alcuni fuochi siano stati accesi nello stesso momento o dopo un breve intervallo, visto che tra gli uni e gli altri non è stato rinvenuto terreno di separazione. La presenza di resti vegetali carbonizzati, come parti specifiche di spighe di farro, attesterebbe un processo di selezione intenzionale, dovuto a esigenze di culto. Anche le offerte di intere parti di animali giovani (cervi, cinghiali, maialini da latte) e di palchi di cervo, questi ultimi deposti a ridosso delle pareti in tutti gli ipogei, sembrano manifestazioni di un rituale propiziatorio.

Nei vari ipogei si rinvengono pietre di provenienza appenninica, non reperibili nelle immediate vicinanze, che venivano usate come elementi di arredo (per ricavarne capaci bacili e lucerne per rischiarare gli interni) o per colmare ambienti non più utilizzati. È ricorrente la presenza di un singolare, grosso masso di forma sferica irregolare, munito di coppie di fori passanti. Tra i numerosi altri utensili, si trovano oggetti tipici dell’attività metallurgica, come crogioli, attrezzi per colare il metallo, frammenti di spilloni e frustuli informi di bronzo: sono tracce che attestano un legame tra le pratiche religiose e alcune attività produttive, riflesso di un certo “controllo dall’alto” su un importante settore come quello fusorio. La pratica più solenne del rituale pare essere stata la chiusura, con conseguente abbandono, di un ipogeo. Un’operazione lenta e precisa, legata all’ideologia religiosa, mirante a rendere inagibili ad altri le strutture una volta terminato il loro ciclo di utilizzazione. Attraverso il dromos e l’apertura di aerazione si colmavano gli ambienti sottostanti rovesciandovi terra e grossi massi. Lo stesso dromos veniva accuratamente interrato e poi sigillato con poderosi filari di grandi pietre a formare un basso tumulo. Al termine una pietra più grande veniva infissa verticalmente con funzione di sema (segnacolo).

Durante il rito della chiusura si effettuavano cerimonie di tipo propiziatorio che comportavano l’uso del fuoco, si consumavano pasti rituali e libagioni, i cui resti (ossa di animali e stoviglie rotte di proposito dopo l’impiego) venivano mescolati ai materiali del riempimento. La più singolare delle cerimonie legate all’abbandono di un ipogeo era la “semina” di parti di corpi umani. In tutti gli ipogei sono state rinvenute ossa umane disseminate, in più riprese e a differenti quote, tra i materiali del riempimento, mai a contatto col pavimento e disposte con modalità del tutto particolari, cosa che esclude la loro pertinenza a sepolture preesistenti nelle medesime strutture. Nell’ipogeo 3 di Terra di Corte, a meno di un metro dalla volta dell’ambiente principale, un cranio umano privo di mandibola fu intenzionalmente collocato in posizione capovolta al centro di un circolo di grosse pietre, a poca distanza da una fila di grandi palchi di cervo, mentre nel dromos dello stesso ipogeo vi erano una mandibola tra due ciotole frammentate e i consueti palchi di cervo adagiati alle pareti. L’inviolabilità del dromos, luogo in cui appare più pregnante il significato rituale dell’abbandono, era così esplicitata dalla particolare procedura per sigillarlo. […]