Berenice: l’oro dei faraoni Ricerche italiane in Sudan

Archeologia Viva n. 81 – maggio/giugno 2000
pp. 44-57

di Alfredo e Angelo Castiglioni

L’Egitto faraonico con le sue fiorenti miniere nel deserto nubiano fu probabilmente il massimo produttore d’oro del mondo antico
L’Italia sta dando un contributo decisivo alla ricostruzione dell’antica “mappa dell’oro” e dei sistemi di estrazione e lavorazione tramite le ricerche organizzate dai fratelli Castiglioni

È quasi certo che le vene di quarzo aurifero del deserto nubiano, soprattutto sudanese, vennero continuativamente e intensivamente sfruttate a partire dalla metà del V millennio a.C. fino al XIII secolo della nostra era, ma furono soprattutto gli egiziani del periodo faraonico che ricavarono i maggiori quantitativi d’oro, ricercando il prezioso metallo anche nei depositi alluvionali: durante le nostre missioni, abbiamo trovato vaste zone dove, per chilometri, la sabbia era stata setacciata dagli antichi cercatori. Dopo il periodo faraonico, l’oro alluvionale (presente nelle sabbie dei corsi d’acqua) e le miniere nubiane furono sfruttati, in successione storica, dai Tolomei, dai Romani, dai Bizantini e dai Copti e, infine, dagli Arabi (nelle oltre cento miniere d’oro da noi visitate, i frammenti di vasellame più comunemente rinvenuti in superficie risalivano al periodo medievale).

Le miniere furono abbandonate verso il XII-XIII secolo, quando la produzione d’oro divenne insufficiente a coprire le spese di estrazione, come ingiustificate apparvero le disumane condizioni di lavoro degli uomini costretti nel deserto. A testimonianza della durissima fatica, sono rimasti gli utensili litici, impiegati per frantumare e polverizzare il quarzo, disseminati a migliaia intorno ai sommari ricoveri di pietre a secco.
L’oro, ancor prima del rame, grazie alle sue caratteristiche di lucentezza e duttilità, quasi certamente fu impiegato dalle popolazioni della cultura Badariana, così detta dal nome della necropoli arcaica di El Badari (sulla riva destra del Nilo all’altezza di Assyut). La cultura Badariana inizia intorno al 4400 a.C., mentre il suo termine si pone verso il 3800 a.C., quando si fonde con la nascente cultura di Naqada. Queste genti, provenienti dal sud, dalla Nubia, s’istallarono nella valle più propriamente egiziana del Nilo verso la fine del V millennio a.C. Un utilizzo così antico dell’oro è confermato anche dagli scavi da noi effettuati nel 1993 nel deserto nubiano sudanese. In una tomba, caratterizzata da un’area sacrificale, indicata da due corte stele alla base delle quali è stato ritrovato un vaso intatto, è venuto alla luce un braccialetto d’oro di pregevole fattura. Si tratta di un monile risalente a circa 4500 anni prima di Cristo, come è stato accertato datando al Carbonio 14 un pezzetto di legno combusto trovato in questo contesto chiuso. Altre tombe di epoche successive, scavate nello stesso anno in prossimità di Berenice Pancrisia, hanno rivelato importanti offerte funerarie comprendenti oggetti d’oro, lapis, turchese e corniola.

È difficile immaginare la grande quantità d’oro che fu utilizzata nella lunga storia dell’Egitto dei faraoni. Oltre agli innumerevoli gioielli e oggetti diversi, sovente d’oro massiccio, dell’arredo funerario reale e delle persone di rango, bisogna considerare l’oro indispensabile ai templi e ai santuari per la celebrazione delle cerimonie giornaliere, come vasi rituali e statue. Si aggiunga l’oro utilizzato per abbellire monumenti e luoghi di culto. Le punte degli obelischi erano rivestite d’oro, come erano ricoperte con lamine d’oro alcune stanze dei templi più importanti. Lo stesso mobilio delle persone socialmente elevate poteva essere rivestito d’oro. Gli orafi egiziani erano capaci di laminare il prezioso metallo in sottilissimi fogli che non superavano lo spessore di 0,01 millimetri, quello di una cartina di sigarette!

Da dove veniva tutta questa ricchezza? Quali erano le zone di estrazione dell’oro che giungeva alle opulenti terre bagnate dal Nilo? Numerose sono le rappresentazioni di offerte di tributi alle autorità dove l’oro veniva presentato fuso in anelli, lingotti o, più semplicemente, contenuto in sacchetti o vasi se si trattava di polvere aurifera.
Secondo i testi dell’Egitto faraonico, la vasta regione produttrice d’oro (compresa tra il 25° e il 18° parallelo) si suddivideva in tre grandi aree. La più settentrionale produceva l’oro di Copto, estratto dalle miniere degli uadi Hammamat, Silsila e Abbad; la zona più meridionale forniva l’oro di Cush, dalle miniere dell’alta Nubia (le più vicine al Nilo), da Buhen a nord, fino a Kerma a sud della terza Cateratta. Infine c’era l’oro di Wawat che proveniva dalle miniere degli uadi Allaqi e Gabgaba e dei loro tributari. Di queste tre aree, Wawat era di gran lunga quella dove veniva estratta la maggiore quantità d’oro.

Negli annali di Tuthmosis III (1479-1425 a.C., XVIII dinastia), incisi su una parete del grande tempio di Karnak all’altezza del sesto pilone, esiste una precisa contabilità dell’oro entrato in Egitto in soli tre anni di regno. Sappiamo così che negli anni 34, 38 e 41 del regno di Tuthmosis la regione di Wawat produsse ben 8542 deben d’oro, mentre negli stessi anni la regione di Cush forniva solo 595 deben. L’antica misura egiziana di un deben corrisponde a 91 grammi, dunque Wawat produsse circa 776 chili d’oro, un quantitativo nettamente superiore ai circa 54 chili provenienti da Cush.
Le nostre ricerche si sono rivolte, quindi, alla regione di Wawat, ed è in questa zona montuosa del deserto nubiano sudanese, solcata dagli uadi Allaqi e Gabgaba, che nel corso di otto missioni – dal 1989 al 1998 – abbiamo localizzato i già citati insediamenti minerari, redigendo una mappa archeologica della regione. In questo grande “vuoto archeologico” le scoperte sono state numerose e diverse: miniere, piccoli insediamenti, vaste necropoli, tracce di piste carovaniere… […]