Vesuvio: la storia infinita L'uomo e il vulcano

Archeologia Viva n. 80 – marzo/aprile 2000
pp. 22-37

di Umbeto Pappalardo, Marisa de’ Spagnolis e Marisa Mastroroberto

Perché da almeno tremila anni si contina a vivere nell’ombra del Vesuvio nel terrore di terremoti ed eruzioni? In pochi casi come questo i comportamenti del vulcano e dell’uomo ci forniscono indicazioni preziose sul futuro della regione campana

In un recente convegno la direttrice dell’Osservatorio vesuviano, Lucia Civetta, ha annunciato la prossima eruzione in un arco di tempo fra venti e duecento anni. La storia dell’area vesuviana e flegrea ci mostra che questa regione, sebbene ad alto rischio sismico e vulcanico, fu densamente abitata fin dal Paleolitico. Nel I sec. d.C., ovvero in età imperiale romana, vivevano a Pompei circa ventimila abitanti, a Ercolano almeno diecimila e, senza dubbio, decine di volte maggiore deve essere stata la popolazione di Neapolis (Napoli) e di Puteoli (Pozzuoli). Lo storico e geografo greco Strabone ci riferisce che, vista dal mare, la costa fra Neapolis e Stabiae (Stabia) appariva come una megalopoli per l’infittirsi degli abitati. Oggi in quest’area vivono due milioni di abitanti. Con l’aumento della popolazione e della concentrazione di beni (abitati, industrie…) è aumentato proporzionalmente il fattore “rischio”. La sismicità ha causato, anche nel XX secolo, morti e danni ingentissimi. Eppure qui si continua a vivere e a costruire, nonostante i vulcanologi abbiano annunciato una prossima grande eruzione.

Perché l’uomo è stato attirato – e continua a esserlo – da una regione tanto pericolosa? La risposta è semplice: le risorse naturali. Un vulcano, che diventa improvvisamente causa di morte e distruzione, costituisce per molte generazioni la fonte di inesauribili ricchezze: i terreni ricchi di minerali e, pertanto, insolitamente fertili che consentono persino cinque raccolti l’anno, l’incredibile varietà di materiali da costruzione, l’abbondanza di corsi fluviali che scorrono senza disperdersi in letti cineritici, le acque termali e minerali e, non ultima, la bellezza dei paesaggi, che solo nelle aree vulcaniche appaiono tanto articolati e variopinti. Già dopo l’eruzione catastrofica del 79 d C., in concomitanza con la progressiva restituzione della rete viaria, si incrementano le testimonianze di un ripopolamento dell’area vesuviana fra Napoli e Stabia fra il II e il IV sec. d.C. Si deve essere trattato di un ripopolamento lento per villaggi (vici e pagi) che andavano espandendosi nel tempo lungo gli assi viari o in prossimità del mare e dei corsi d’acqua. I pochi resti, spesso costruiti con materiali di reimpiego, fanno supporre un livello di vita molto più modesto rispetto alla luxuria espressa dalle città e dalle ville vesuviane anteriori al 79 d.C.: si tratta di edifici pruduttivi (fructus) più che di villeggiatura (otium). La notizia diventa ancor più suggestiva pensando che Procopio, ancora nel VI secolo, ci riferisce che affacciandosi al cratere vi si poteva scorgere il fuoco.

Sorprendente è constatare come in due millenni il territorio abbia ripreso, lentamente ma completamente, quell’assetto socioeconomico che lo caratterizzava prima della catastrofe del 79 d.C., segno evidente che sono sempre le risorse naturali a condizionare i ripopolamenti e a determinarne le modalità.
Se scarsissime sono in Campania le tracce del Paleolitico (fino a 10.000 anni fa) e del Mesolitico (da 10.000 a 7000 anni fa) ciò è dovuto soprattutto agli imponenti accumuli vulcanici che hanno in gran parte seppellito le testimonianze dei più antichi abitanti.

Il biografo latino Svetonio nel De vita Caesarum (‘La vita dei Cesari’) riferisce che Augusto collezionava «gigantum ossa et arma heroum», ‘animali fossili e armi rudimentali’, scoperti nello scavo di una sua villa a Capri. Questo dato letterario trovò una suggestiva conferma nel 1905, quando si scavarono a Tragara, sull’isola di Capri, le fondazioni per l’ampliamento dell’hotel Quisisana: vi si ritrovarono, affondati nel limo di un antico bacino lacustre del Quaternario e sotto un enorme strato di ceneri vulcaniche, i resti ossei di animali giganteschi, quali il mammuth, il Rinoceros Merckii, l’Ursus speleus, associati a cuspidi triangolari e amigdale in selce e quarzite di tipo acheuleano e musteriano, due culture preistoriche databili rispettivamente a circa 700.000 anni fa (Paleolitico inferiore) e a 200.000 anni fa (Paleolitico medio).
Meglio documentati siamo sulla Protostoria, grazie alle recenti indagini archeologiche finalizzate alle connessioni fra attività vulcanica e insediamenti preistorici. L’eruzione cosiddetta “delle pomici di Avellino”, datata nel periodo 1880-1680 a.C., ha ricoperto con i suoi depositi numerosi siti del Bronzo antico.

Gli studi vulcanologici hanno dimostrato che, durante le maggiori eruzioni pliniane, i prodotti piroclastici eruttati dal vulcano si sono dispersi prevalentemente in direzione nordest, ovvero verso l’area del Beneventano e dell’Avellinese. Inoltre si è notato che, mentre le pomici ricadono verso nord, i flussi piroclastici (ceneri, lapilli, scorie e blocchi) si riversano verso sud: una tendenza generale che può essere la causa dei successivi ripopolamenti dei centri settentrionali colpiti dalle grandi eruzioni, quali Palma Campania. Infatti, a differenza delle colate che livellano e appiattiscono gli avvallamenti, le pomici ammantano il suolo mantenendo grosso modo la morfologia preesistente; in tal modo, anche dopo i grandi seppellimenti, si è potuta conservare nei fuggiaschi e nei loro discendenti la memoria dei propri paesaggi. […]