Colosseo: umbilicus urbis Roma 2000: una città un monumento

Archeologia Viva n. 79 – gennaio/febbraio 2000
pp. 32-48

a cura di Fabrizio Paolucci

È il monumento più famoso della romanità e simbolo degli stessi destini plurimillenari dell’Urbe di cui segna il paesaggio archeologico Espressione dei gusti e della sensibilità di un’epoca paragonabili solo a quelle delle nostre masse da stadio la mole imponente dell’Anfiteatro Flavio costituisce una delle massime testimonianze delle capacità architettoniche del mondo antico

«Quando stat Colysaeum stat et Roma, quando cadet Colysaeum cadet et Roma, quando cadet et Roma cadet et mundus». L’Anfiteatro Flavio, già nelle parole di questa profezia apocalittica del Venerabile Beda (VIII secolo), è riconosciuto come l’emblema della città e garanzia stessa del suo futuro. Quasi paradossalmente, quindi, nell’immaginario comune altomedievale, come del resto in quello contemporaneo, il simbolo di Roma, sede della cristianità trionfante, non è San Pietro o il Laterano, bensì il Colosseo, arena destinata allo svolgimento di quei sanguinari giochi che, talvolta, avevano avuto proprio dei cristiani come sfortunati “protagonisti”.

Le gigantesche proporzioni dell’Anfiteatro Flavio, che per secoli hanno colpito l’immaginazione dei visitatori, sono forse la testimonianza più evidente della fortuna e del seguito popolare con cui quegli efferati spettacoli di morte erano seguiti nel mondo romano. I meccanismi psicologici di attrazione verso il sangue, che erano all’origine di questo fenomeno di massa, appaiono del tutto incomprensibili per la sensibilità moderna, anche se forse, come ha messo in evidenza uno studioso francese, non sono molto dissimili da quella forma di sadismo che fa accorrere la gente sul luogo di un incidente stradale.

Nel tentativo di comprendere il processo storico e sociale che sancì la fortuna dei giochi gladiatori e delle venationes (‘cacce’) e che condusse alla realizzazione in tutto l’impero di edifici grandiosi, quali furono gli anfiteatri, è opportuno ripercorrere la storia della gladiatura. È oramai appurato che il combattimento mortale fra due o più armati sia derivato dalla pratica del sacrificio umano per placare i Mani, gli spiriti dei defunti. Il parere degli studiosi è concorde anche nell’identificare il luogo in cui nacquero i giochi gladiatori: la Campania. Affreschi sanniti della prima metà del IV sec. a.C. raffigurano già, fra i giochi in onore del defunto, scene di combattimento; inoltre, samnes, ‘il sannita’, era una delle armature gladiatorie più antiche e in Campania, a partire dal II sec. a.C., sono attestati i più antichi esempi di anfiteatri.

Le fonti storiche sono univoche nel datare al 264 a.C. il primo munus (‘spettacolo gladiatorio’) organizzato a Roma e offerto dal nobile Decimo Giunio Bruto per onorare le ceneri del padre. Questo episodio segnò l’inizio di una fortuna sempre maggiore dei giochi gladiatori, testimoniataci dalla crescita esponenziale del numero delle coppie di combattenti impegnate: soltanto tre nel munus offerto da Giunio Bruto, oltre sessanta meno di un secolo dopo, in occasione delle esequie del ricco Publio Licinio (183 a.C.). Inoltre, nel corso del II sec. a.C. all’esibizione gladiatoria si affiancò la venatio, cioè la caccia ad animali esotici e non (cinghiali, cervi, tigri, leoni ecc.), che si teneva solitamente la mattina ed era ambientata in artificiali e complesse ricostruzioni dell’habitat naturale delle fiere. Spettacoli di equilibrismo, di giocolieri o animali ammaestrati completavano lo spettacolo circense che, con l’aggiunta delle esecuzioni pubbliche dei damnati ad bestias (criminali o prigionieri di guerra destinati a essere sbranati nell’arena), che si svolgevano nell’intervallo del pranzo prima dei combattimenti gladiatori del pomeriggio, raggiunse la sua struttura “classica” destinata a rimanere immutata per secoli. […]