Il risveglio di Nefertari Cronaca di un restauro

Archeologia Viva n. 18 – aprile 1991
pp. 32-51

di Alberto Siliotti

La bellissima tomba della regina Nefertari capolavoro dell’arte funeraria egiziana è stato oggetto di un imponente restauro che proprio in questi mesi si va ultimando con il supporto delle tecnologie più avanzate

Intanto le porte del cantiere si sono eccezionalmente aperte per l’inviato di “Archeologia Viva” che in anteprima ha potuto realizzare questo straordinario reportage

Un incessante rumore di autobus che parcheggiano, partono, arrivano e il brusio delle comitive vocianti rompono il silenzio del sito sacro alla dea Hathor, la Valle delle Regine, Biban el Harim come la chiamano gli arabi. Arrivano a gruppi tra le rocce giallo-rossastre calcinate dal sole per infilarsi nella semioscurità delle tombe dove si solleva una finissima polvere.

Ammirano frettolosamente le magnifiche pitture policrome delle tombe dei principi Khaemuaset e Amon her-kopeshef; talvolta non esitano a toccarle con la mano, quasi per assicurarsi che siano vere o per un inconscio desiderio di possesso, subito aspramente redarguiti dalle guardie che fanno del loro meglio per limitare i danni.

Poi ripartono per riguadagnare l’altra sponda del Nilo, i grandi alberghi o le navi in attesa sul molo. È un via vai continuo e fastidioso perché, anche se il sito non è visitato come la ben più celebre Valle dei Re, è in compenso molto meno esteso.

Ma lì vicino c’è una tomba, la più bella di tutte, dove nessun turista potrà mai entrare, né ora né in futuro. Porta il numero 66 ed appartiene alla regina Nefertari, la grande sposa reale di Ramesse II, il più illustre di tutti i faraoni d’Egitto.

All’interno della tomba di Nefertari

All’interno della tomba di Nefertari lavora da qualche anno un’équipe internazionale di restauratori che cerca con ogni mezzo di salvare da una fine certa questa magnifica testimonianza dell’arte dell’antico Egitto.
È la più importante operazione di restauro su una tomba mai tentata nella valle del Nilo, un progetto nato dalla collaborazione tra l’Egyptian Antiquities Organization e il Paul Getty Conservation Institut che ne sopporta il pesante onere economico.

A capo di questo gruppo scelto di tecnici – l’élite mondiale nel campo del restauro dei dipinti murali –, sono due italiani con alle spalle una lunga carriera all’Istituto Centrale del Restauro di Roma: Paolo e Laura Mora. Mancano solo due campagne alla fine dei lavori; poi la tomba, ritrovato il suo antico splendore, verrà chiusa per sempre. Si spera così di preservarla per le generazioni future.

Ma perché questo splendido monumento era arrivato sull’orlo della distruzione? A quando risalgono i gravi mali che l’affliggono?

Questi erano gli interrgativi che mi ponevo aggirandomi in silenzio nelle sale della tomba ormai trasformata in laboratorio e ammirando la sublime bellezza delle pitture tra l’acuto odore dei solventi e delle molteplici sostanze chimche utilizzate nelle complesse metodologie messe in opera dagli specialisti.

Quando Ernesto Schiaparelli, allora direttore del Museo Egizio di Torino, scoprì la tomba nel 1904 si trovò davanti un ipogeo che in alcuni punti era perfettamente conservato, ma in altri versava già in uno stato di saluto abbastanza precario.

«… I nostri scavatori – scriveva Schiaparelli – misero in luce i primi gradini di una sala scavata nella rupe sottostante, indizio certo dell’esistenza di una tomba e indizio probabile di una tomba anteriore alla XX Dinastia. Poiché le tombe di questo periodo sia nella Valle delle Regine che in quella dei Re, invece che da una scala, erano solitamente precedute da un corridoio a cielo scoperto.

Col furore che invade i lavoranti quando sanno di essere vicini alla scoperta di una tomba, i mucchi di macerie che coprivano la scala vennnero in breve sgombrati: e col rapido procedere del lavoro venne progressivamente in luce una bella scala che scendeva abbastanza comodamente con gradini di giusta alzata, tagliati nella roccia a cielo scoperto e fra due pareti ben lavorate e poi stuccate e colorate di bianco.

La scala era larga 1,65 metri e aveva nella sua sezione centrale il caratteristico piano inclinato lasciatovi appositamente per la discesa del sarcofago e scendeva per oltre 8 metri fino a un’ampia parete, sull’architrave della quale ai due lati del sole nascente che vi era raffigurato fiancheggiato dai due occhi sacri e adorato dalle due sorelle Iside e Nefti, si leggeva il nome della celebre consorte di Ramesse II, rappresentata anche nella statua di Torino e nello speco di Ibsambul (il tempio di Abu Simbel – ndr).

Il nome della regina risultava inoltre dalle iscrizioni che erano incise e dipinte sui due stipi della porta: “La nobile di schiatta, la grande dei favori, signora di bontà, di dolcezza e di amore, la sovrana del Sud e del Nord, la defunta consorte legittima, signora [delle due terre] Nefertari Mirinmut, giusta voce [giustificata] presso il Dio Grande”.

La tomba era aperta e non rimaneva alcuna traccia dell’antica chiusura; essa era stata saccheggiata fin da tempo certo assai lontano, forse già dagli antichi Egiziani medesimi.» […]