La Tavola di Cortona Obiettivo su...

Archeologia Viva n. 78 – novembre/dicembre 1999
pp. 74-79

di Massimo Becattini

È uno dei testi più importanti in lingua etrusca dove questa volta non si parla di defunti o riti funerari ma di un concreto e articolato passaggio di proprietà fra etruschi ben in vita e preoccupati di tutelare le proprie ricchezze

Nel 1992 sette frammenti di una tavola bronzea con una fitta iscrizione vengono consegnati ai carabinieri di Cortona (antico centro della Valdichiana aretina, sede di lucumone in epoca etrusca) da un manovale del luogo, insieme ad altri reperti, anch’essi in bronzo. Dopo una lunga vicenda giudiziaria e molti anni di studio, la tavola è stata presentata. «Archeologia Viva» ha raccolto l’intera vicenda dai protagonisti, Francesco Nicosia, ispettore centrale del Ministero per i Beni culturali, e Luciano Agostiniani, docente di Glottologia all’Università di Perugia.

Era, appunto, l’ottobre del 1992 quando la tavola fu presentata all’etruscologo Francesco Nicosia, all’epoca soprintendente per i Beni archeologici della Toscana: rinvenuta in sette pezzi insieme con i frammenti di altri oggetti ugualmente in bronzo – così affermò lo “scopritore” Giovanni Ghiottini – a Camucia, ai piedi del colle in cui sorge Cortona, fra la terra del cantiere edile delle Piagge. Se fosse provata l’associazione della tavola con gli altri bronzi rinvenuti (ma al momento gli esperti non sono in grado di stabilirlo) l’iscrizione si daterebbe tra III e I sec. a.C., quando tutta l’Etruria era già stata conquistata dai Romani. Lo “scopritore” dichiarò di aver lavato la tavola con uno spazzolino da denti e acqua corrente; in realtà si sono trovate tracce di bruschino d’acciaio, che in qualche punto ha segnato il bronzo. Anche gli altri reperti (tra questi, due basi di statuette, la base di un cratere, una palmetta ornamentale di thymiaterion) mostrano limature leggere che scrostano la patina: evidentemente, prima di consegnare i reperti all’autorità, si è cercato di vedere se il metallo fosse oro. La tavola presentava anche ampie tracce di ruggine, dovute al prolungato contatto con oggetti in ferro nei molti secoli di giacenza sotto terra. Al tempo stesso i punti di mineralizzazione sulle fratture dimostrano che il prezioso documento venne spezzato in antico e si può escludere così l’opera di un tombarolo.

Lo stesso anno dichiarato della scoperta l’archeologa Paola Grassi, avvalendosi della Cooperativa Idra, condusse indagini accurate sulla terra presente nei frammenti degli oggetti in bronzo consegnati insieme alla tavola iscritta, ma risultò che non si trattava della stessa terra del cantiere, quindi i frammenti delle basi di statuette e della tavola non venivano dal cantiere, dove – secondo lo “scopritore” – sarebbe avvenuto il ritrovamento. Il Ghiottini sosteneva di aver visto, uscendo dal cantiere edile in cui lavorava, una specie di «ciotolina» rovesciata, ovvero un piede di cratere; guardando meglio avrebbe trovato altri bronzi e infine la tavola, mancante dell’ottavo pezzo. Gli archeologi vagliarono tutta la terra del cantiere nel punto indicato dal Ghiottini senza trovare assolutamente nulla, neppure tracce di ossidazione del ferro che aveva macchiato la tavola. Quindi – in base ai dati di scavo – non è stato possibile stabilire alcuna connessione fra il terreno e i reperti bronzei, né tra l’asserita località di rinvenimento, Camucia, e la tavola. Anche una telefonata anonima, giunta in Soprintendenza il 12 ottobre del 1992, avvertiva che quei bronzi non venivano da Camucia.

Siccome i dati riferiti del rinvenimento risultavano molto opinabili, l’allora soprintendente Nicosia sollecitò il procuratore della repubblica a svolgere indagini in merito e Ghiottini finì accusato di furto ai danni dello Stato. Al processo l’imputato fu assolto, avendo egli comunque consegnato i reperti, ma la sentenza recepì quanto dichiarato dal soprintendente (che la scoperta non era avvenuta nel luogo dichiarato) e quindi non fu corrisposto il premio di rinvenimento. […]