Bahareya: la sagra delle mummie Deserto occidentale egiziano

Archeologia Viva n. 78 – novembre/dicembre 1999
pp. 22-33

di Zahi Hawass

Le sabbie della grande oasi del deserto occidentale egiziano ci hanno riservato una delle più grandi sorprese di cui è ricca la storia dell’egittologia: una quantità enorme di mummie (forse migliaia) ottimamente conservate nelle tombe di età greco-romana quando in ogni aspetto dell’esistenza era ancora vivissima la grande tradizione del tempo dei faraoni

Quella che una delle mie colleghe ha definito «la sagra delle mummie» è una scoperta recente della nostra squadra di archeologi egiziani presso l’oasi di Bahareya, circa 380 km a sudovest delle piramidi di Giza. Finora sono state riportate alla luce quattro tombe, con all’interno centocinque mummie, per la maggior parte splendidamente dorate e decorate con scene a carattere religioso: sono le più belle mai trovate in Egitto dell’epoca del dominio greco-romano (332 a.C. – 395 d.C.).

La storia comincia tre anni fa. Ero impegnato a Giza negli scavi delle tombe dei costruttori delle piramidi. Un giorno, mentre ripulivo dal terriccio lo scheletro di uno di quegli anonimi operai che avevano contribuito a innalzare la Grande Piramide, il mio assistente Mansour Buraik mi raggiunse in uno stato di palese eccitazione, dicendomi senza fiato che a Bahareya avevano trovato qualcosa di «molto interessante!». Lo scheletro dell’operaio cominciava a mostrarsi nella sua interezza, vicino affiorava del vasellame… Smisi di lavorare e guardai Mansour, che ha un senso dell’umorismo piuttosto perfido: «È un altro dei tuoi scherzi?». Invece Mansour diceva sul serio. Era appunto arrivato Ashry Shaker, ispettore capo a Bahareya, e proseguì lui: «Lascia perdere queste ossa. Ieri il guardiano dei monumenti Mohamed Aiadi passava col suo asino dalla strada per l’oasi di Farafra (circa 6 km a sud della città di Bawiti, il capoluogo di Bahareya), quando la bestia ha urtato la zampa contro lo spigolo di una tomba…». Dissi ad Ashry che iniziasse il lavoro, che sarei andato la prossima settimana.

Quando nel maggio 1996 andai finalmente a dare un’occhiata alla nuova scoperta di Bahareya, quasi non riuscivo a credere che potessero esistere mummie così belle. Gli occhi di alcune mi fissavano come vivi. Altre, soltanto avvolte nelle bende di lino, mi ricordarono le immagini de La Mummia, il film interpretato 67 anni fa da Boris Karloff con cui si inaugurò la fortunata serie horror giunta fino ai giorni nostri. In attesa di poter intervenire con una missione archeologica appropriata, mantenemmo il più completo silenzio su questa prima tomba. Sospettando qualcosa i ladri avrebbero riconosciuto l’odore della resina usata nel processo di imbalsamazione e che le mummie trasudano. Occorreva proteggere quei corpi dai saccheggi, evitare che si deteriorassero, appurare le dimensioni della necropoli.

La primavera scorsa sono tornato nell’oasi alla guida di una squadra di quattordici persone tra archeologi, architetti, specialisti del restauro, disegnatori, elettricisti… Per settimane siamo rimasti accampati nel deserto, approfittando solo qualche volta del nuovo motel, l’El-Beshmo Lodge di Bawiti. È stato un sollievo lasciare le piramidi e cercare nella sabbia di Bahareya il suo ricco tesoro. Le mummie ci mettono in comunicazione con l’aldilà, trasmettendoci un senso di timore e reverenza; sono fra le massime responsabili – con la loro “terribile fama” – del brivido dell’egittomania. Sono reperti di fronte ai quali anche lo scienziato prova turbamento: questo scavo prometteva di restituire vigore allo spirito avventuroso dell’archeologia! Abbiamo tracciato quattro riquadri sulla sabbia, corrispondenti ad altrettante tombe, e abbiamo iniziato a scavare. In ogni quadrato operavano due archeologi e quindici operai; al tempo stesso l’architetto disegnava la mappa del sito, l’elettricista preparava la luce e i restauratori aspettavano… le mummie, pronti con i loro composti chimici.

Quando abbiamo aperto la prima tomba, qualcosa ha luccicato sotto il sole. Ben presto ho riconosciuto la mummia di una donna, alta circa un metro e mezzo: la maschera sul volto e il pettorale erano ricoperti di lamine d’oro; le decorazioni sul pettorale erano suddivise in tre sezioni; due dischi rappresentavano i seni (intanto il mio assistente Mansour liberava altre mummie dalla sabbia). La sezione centrale delle decorazioni sulla mummia della donna comincia in alto con l’immagine di una cassa, o una bara, dalla quale spunta una testa alata, probabilmente l’anima della defunta durante la resurrezione. Cinque cerchi decorano la base di questo primo fregio: il secondo mostra Anubi, dio dell’imbalsamazione, chino. Sono così preso dall’esame di questo straordinario reperto che non mi accorgo di quanto accade intorno a me: in una pausa, premendomi la penna sulla fronte, guardo alla mia sinistra e scorgo, quasi come in un’allucinazione, una moltitudine di mummie, alla mia destra ne vedo altre ancora, di uomini, donne e bambini, quasi tutte in buone condizioni. Affido a Noha Abdel Hafiz, l’unica donna della spedizione, l’incarico di contarle.

Riprendo quindi ad analizzare la mummia della donna e scopro sul lato sinistro del pettorale la riproduzione di tre cobra con il disco solare sulla testa. Una serie di cinque cerchi separa quell’immagine dalle successive, che ritraggono i quattro figli del dio Horus. La donna presenta una splendida corona e quattro file di riccioli colorati di rosso, una pettinatura simile a quella trovata su alcune statue di terracotta. Dietro alle orecchie, su un lato si nota la dea Iside e Nephthys, un’altra dea, sull’altro: proteggono la defunta con le loro ali. La maschera sul volto è di gesso, con un sottile strato d’oro. […]