Meraviglie nascoste nel deserto di Gobi Ricerche del Centro Camuno di Studi Preistorici

Archeologia Viva n. 77 – settembre/ottobre 1999
pp. 68-77

di Emmanuel Anati

All’interno dei monti Mandela una valle appartata conserva intatto il suo patrimonio di migliaia di incisioni rupestri: un’occasione unica per documentare la vita pressoché sconosciuta degli antichi nomadi della Mongolia

Dopo un interminabile E traballante viaggio su fuoristrada, il profilo della montagna lentamente cresce all’orizzonte. A sei ore di pista dal capoluogo della provincia, Alxa Yuoki, si giunge alle pendici del gruppo montuoso. L’auto si ferma presso un allevamento di capre, a 1100 metri di altitudine. Ci abita una famiglia, c’è un pozzo, i ruderi di un antico caravanserraglio, qualche albero. La catena dei monti Mandela si erge sopra l’interminabile steppa del grande deserto di Gobi, nella Mongolia Interna. Appare come un massiccio, imponente, compatto. Ai suoi piedi non si ha l’impressione che quell’ambiente celi qualcosa di straordinario, eppure vi si nasconde una valle incantata, piena di magnifiche incisioni rupestri, il cui ruolo è stato rilevante per il popolo mongolo e per i suoi predecessori: una specie di “valle delle meraviglie” nel cuore dell’Asia centrale.

Il vento impetuoso trascina sabbia e sterpaglie e rende l’ascesa difficile. Le forze della natura si scatenano in questo paesaggio lunare privo di presenze umane ma carico di energia. Unico segno di vita, gli uccelli rapaci che volteggiano. La salita segue il tracciato di un sentiero tra macigni di granito in bilico sul pendio. Ci si arrampica per un dislivello di trecento metri, fino a un labirinto di rocce che costituisce l’imbocco angusto di una valle invisibile dall’esterno e che risale in lieve pendio per circa tre chilometri.

Il percorso che ci porta dalla base del monte fino alla “valle delle meraviglie” sembra marcare la frontiera tra due mondi, quello della vita quotidiana della prateria, segnata dagli umori dell’ecosistema, e il mondo segreto, pieno di misteri, di questa valle nascosta. Appena si entra il vento cessa. Rispetto al suo furore sul pendio, la calma statica dell’aria è impressionante. Tutto è immerso in un silenzio di piombo. I rari arbusti sono immobili. Avanzando si trovano alcune incisioni rupestri e resti di bivacco in luoghi che si direbbe di riunione, dove allineamenti di pietre segnano spazi ovali e circolari. Vi sono dei gruppi di ortostati (lastre di pietra verticali) e una pietra-altare con davanti uno dei grandi ortostati rivolto verso la cima soprastante.

La valle, a forma di culla, risale fino ai piedi di tre vette, le più alte della catena, dove si trova la maggiore concentrazione di arte rupestre, e viene spontaneo chiedersi quale funzione avesse per gli uomini antichi che la frequentavano. Sulle cime, a poco più di 1800 metri, i colori cambiano, da quelli chiari e caldi del granito e dell’arenaria, al nero cupo e lucido del basalto. Una delle vette conserva un cumulo di pietre a piramide alto un paio di metri. Secondo la nostra guida, il luogo era destinato ai riti di propiziazione per la pioggia, che anche oggi ricoprono un ruolo assai importante nei culti e nelle credenze del mondo mongolo.

Sulle altre due cime che chiudono la nostra “valle delle meraviglie” troviamo dei piazzaletti sui quali si concentrano alcune decine di rocce riccamente istoriate con immagini di carovane, villaggi, scene di caccia ed evocazioni di gesta eroiche. Vi sono allineamenti di pietre che delimitano lo spiazzo nel quale si concentrano le rocce incise. Si ha l’impressione che le incisioni presentino dei fumetti della mitostoria mongola. Probabilmente sono state per secoli oggetto di venerazione e pellegrinaggio. Su un lastrone è rappresentato un villaggio di capanne, con al centro un torrione di vari piani e figure umane ai vari livelli. Lo stile è naïf, gli spazi sono stati interamente riempiti dalle figure, la descrizione è viva e parlante. Tutte queste figure, per lo più di donne, sembrano essere nell’attesa di un evento. Ed ecco che da un lato arrivano dei nobili cavalieri. Su altre rocce sono raffigurate strutture che potrebbero essere pagode.

Processioni di personaggi a cavallo sembrano commemorare eventi leggendari. Scene di lotta esaltano gesta eroiche. Appaiono quadrupedi e uccelli, scene di caccia, di cerimonia, di danza. Sono emblematici diversi casi di strani rifacimenti. Alcuni cervidi, su varie rocce, sono stati trasformati in cavalli. Dalla patina più chiara del rifacimento si può desumere che un certo lasso di tempo è passato tra l’esecuzione delle figure originarie e la successiva trasformazione. Il cervo era l’animale totemico dei cacciatori nel II e I millennio a.C., mentre il cavallo era quello nobile, il simbolo dei nomadi della steppa durante l’impero mongolo all’inizio del II millennio d.C. Vi sono scene con episodi di guerra, con personaggi che usano il cavallo e il cammello, che hanno una patina più chiara e quindi sono più recenti della maggioranza delle figure. E vi sono rocce che mostrano incisioni con svariate sfumature di colorazione di patina e indicano una lunga persistenza nella tradizione istoriativa. Alcune incisioni sono accompagnate da iscrizioni in varie lingue, con caratteri che gli specialisti potranno datare e decifrare. Sporadiche incisioni di una patina molto chiara hanno iscrizioni in alfabeto arabo databili a tre o quattro secoli. […]