2 Incontro AV: la carica dei duemila Grandi eventi

Archeologia Viva n. 76 – luglio/agosto 1999
pp. 70-78

a cura di Fabrizio Paolucci

Il popolo dell’archeologia ha partecipato in massa al 2° incontro nazionale indetto dalla rivista e per un giorno Firenze è diventata la festosa capitale di quanti cercano nel passato “chi siamo” e “dove andiamo”

La prima volta, nel ’97, fu una scommessa. Non sapevamo quanti avrebbero accettato di passare un’intera domenica con «Archeologia Viva» (dalla mattina presto fino all’ora di cena!), ma i risultati di partecipazione furono tali da spingerci a cercare una conferma dell’interesse – e del calore umano – dei nostri lettori. Vi posso dire che il nostro 2° Incontro nazionale, a Firenze la primavera scorsa, è stato una seconda volta meravigliosa, un evento trascinante, per l’entusiasmo del pubblico e il forte impatto delle comunicazioni. Nella giornata si sono calcolate non meno di duemilacinquecento presenze: una folla che riempiva ogni spazio del grande palacongressi e applausi interminabili che sottolineavano la popolarità degli archeologi ospiti e la disponibilità degli ascoltatori a essere coinvolti anche in ambiti tematici di non sempre facile accesso. Non risulta che un incontro culturale abbia mai ottenuto una simile partecipazione. Tutto questo costituisce – per chi diciotto anni fa ha fondato «Archeologia Viva», il primo periodico italiano di larga diffusione nel settore – un incoraggiamento a proseguire su una linea editoriale che prevede il massimo rigore scientifico unito a una volontà caparbia di rendere percepibile il messaggio. Ho sempre sostenuto che chi scrive o parla di archeologia, se vuole ascolto, deve essere come un bravo insegnante, che è comprensibile e coinvolgente solo se ha le idee chiare e ama la sua materia. Così cerchiamo di essere noi ogni volta che prepariamo un numero della rivista e così è successo per il travolgente secondo incontro nazionale. E si badi bene. Per ottenere il successo di Firenze non c’è stato bisogno di ridurre l’archeologia a spettacolo da circo, allettando il pubblico con gli zuccherini di “misteri” a ogni costo, pirotecniche messinscena di improbabili scoperte mozzafiato, con interviste a incantatori dalle magiche teorie. L’archeologia è già uno spettacolo, inesauribile e ammaliante. Basta farla scendere fra la gente. Senza tradirla.

Piero Pruneti


Con i protagonisti. Se ancora qualcuno riteneva l’archeologia una materia elitaria, lontana dagli interessi di un pubblico non specializzato, ha sicuramente cambiato idea stando fra la folla del “2° Incontro nazionale di Archeologia Viva”. Una moltitudine “promiscua” di giovani e anziani, studiosi di chiara fama e semplici appassionati, di professionisti e… casalinghi, di fedelissimi “seguaci della prima ora” – da quasi vent’anni fa – di «Archeologia Viva» ed estimatori nuovi di zecca. Gli oltre duemila appassionati, che quella mattina sono giunti da ogni parte d’Italia, hanno offerto uno spaccato fedele dei nostri lettori, un pubblico che non si accontenta di un ruolo passivo. È il motivo per cui la rivista offre concrete possibilità di praticare l’archeologia, tramite le annuali campagne di scavi organizzate in Sardegna, le Lezioni di archeologia subacquea di Ustica, i viaggi studio nei paesi epicentro delle grandi civiltà antiche, le rassegne di cinema archeologico. Gli incontri nazionali di «Archeologia Viva», che – ha promesso Piero Pruneti – diverranno un appuntamento fisso a cadenza biennale, costituiscono anche un momento di sintesi di un’attività che va ben oltre la semplice redazione di una rivista. Insomma, un “incontro ravvicinato” con l’archeologia in ogni sua dimensione, fra cui quella straordinaria di rivivere per un giorno i momenti delle grandi scoperte insieme ai protagonisti.

Perché Ninive e l’Oriente antico. Uno dei più noti archeologi italiani, Paolo Matthiae, ha aperto le relazioni. Non è stata la “solita” Ebla a offrire, stavolta, la materia dell’intervento, ma una città di fama ben maggiore come Ninive. Perché – ha affermato Matthiae – un archeologo come me, specializzato nello studio delle culture protosiriane del III e del II millennio e della cultura urbana nella Siria interna, si occupa di Assiria e di Ninive? Perché mi piace Ninive e mi piacciono i rilievi assiri. L’arte del mondo orientale antico è un messaggio che facciamo fatica a comprendere; questo però non significa che, una volta decodificate alcune chiavi di lettura, non sia possibile convincerci che le grandi civiltà dell’Oriente antico produssero capolavori in niente inferiori a quelli della civiltà grecoromana. «Incidentalmente vorrei ricordare – ha proseguito Matthiae – proprio qui a Firenze la mostra “Arte sublime nell’antico Egitto” (Palazzo Strozzi, fino al 4 luglio – n.d.r.) – sessanta celebri sculture egiziane scelte da un architetto – che costituisce un genere di esposizione spesso criticato dagli archeologi, orientati a mettere in vetrina solo quello che emerge direttamente dagli scavi. Io giudico questa iniziativa in modo del tutto positivo, poiché ci consente non solo di ammirare delle opere che raramente escono dal Museo del Cairo, ma anche di constatare l’elevatissimo livello artistico che ha contraddistinto l’Egitto, cioè l’altro grande polo delle civiltà urbane nell’Oriente antico. I rilievi assiri, l’arte greca del V sec. a.C., l’arte del Rinascimento italiano e fiammingo, le pitture cinesi: ecco alcuni dei massimi momenti artistici dell’uomo, che noi dobbiamo senz’altro imparare a leggere con obiettività».

Il cartiglio più antico. Francesco Tiradritti, egittologo presso il Museo archeologico di Milano, ha ripercorso l’affascinante storia della decifrazione dei geroglifici, prendendo a spunto alcuni degli oggetti esposti nella mostra “Lingua e scrittura nell’antico Egitto”, da lui stesso curata. In particolare, ha illustrato l’importante sigillo del sovrano Peribsen, vissuto nel 2800 a.C., che costituisce il più antico esempio noto dell’adozione del cartiglio per isolare il nome del sovrano. Proprio dall’osservazione che questa sorta di corda, tesa intorno ad alcuni segni per proteggerli dalle influenze maligne, cingeva esclusivamente i nomi dei sovrani, il medico inglese Thomas Young arrivò a leggere i primi nomi di faraoni, gettando le basi per una completa decifrazione del geroglifico. Com’è noto, il merito della scoperta è di Champollion che, nel 1821, potè finalmente annunciare lo straordinario coronamento delle sue ricerche. Gli anni successivi furono tempi di “egittomania”; decine erano ormai i viaggiatori che tornavano dall’Egitto con sarcofagi e papiri, con ciò determinando il nascere di un fiorente mercato dei falsi: un esempio è offerto da un piccolo papiro del Museo archeologico di Milano, acquistato in Egitto nella prima metà dell’Ottocento, che altro non è che una foglia di banana avvolta intorno a un bastoncino con sopra dei simboli incomprensibili!

Una disciplina ancora giovane. A un’età più vicina e a una disciplina di assai più recente formazione, ci ha portati Guido Vannini, docente all’Università di Firenze. L’archeologia medievale nasce come storia delle strutture materiali, lontana dalle motivazioni letterarie ed estetiche che sollecitarono lo studio del mondo classico. Proprio in questo settore della ricerca, dunque, è emersa la necessità di una sempre maggiore specializzazione in aree disciplinari dotate di autonomia di metodo. Da tempo ormai, nel campo medievale, archeobotanici, informatici, paleozoologi collaborano con l’archeologo, collaudando una linea d’intervento che solo di recente si è andata imponendo negli altri rami dell’archeologia. Il risultato è una disciplina che dello scavo o della ricerca di superficie fa occasioni di verifica per obiettivi più ampi e complessi. Così, ad esempio, lo studio di un castello consente di ricostruire i modelli organizzativi e di sfruttamento del territorio, offrendo materiali preziosi per la storia del popolamento di una regione. In questo senso vanno gli scavi che Vannini conduce nel castello di Poggio La Regina, sul Pratomagno in Toscana, e nella fortificazione crociata di Wu’eira, in Giordania, siti che, in aree culturalmente e geograficamente molto distanti, consentono di verificare gli effetti sull’organizzazione del territorio del sistema feudale.

Alto mare e bassi interessi. Le centinaia di persone che finora hanno frequentato i corsi di archeologia subacquea organizzati da «Archeologia Viva» testimoniano il diffuso interesse per questo tipo di ricerca dal fascino particolare. E il fenomeno – ha rilevato Piero Alfredo Gianfrotta, docente all’Università della Tuscia – non poteva non scatenare la sete dei mass media che, specialmente nei mesi balneari, dedicano ampio spazio a “rinvenimenti sensazionali”, talvolta non proprio tali. È il caso del fantomatico palazzo di Cleopatra trovato, secondo i giornali dell’estate scorsa, nella rada di Alessandria; o ancora della “sensazionale scoperta” della flotta di Aboukir, in realtà identificata da oltre vent’anni. A questi aspetti, tutto sommato innocui, si aggiunge una ricerca abusiva sempre più massiccia che, grazie alle nuove tecnologie, non risparmia le grandi profondità. È degli ultimi tempi l’utilizzo di sommergibili per la ricerca nelle acque alte del Mediterraneo. Ma il problema più grave è rappresentato dalle carenze della normativa internazionale, per cui, al di là delle ventiquattro miglia dalla costa, vige la legge del mare in base alla quale tutto ciò che viene trovato spetta al “rinvenitore”.

Chi e quando ci ha creato? È senza dubbio impegnativa la domanda – oltretutto a sorpresa – che Pruneti ha rivolto a Carlo Peretto, antropologo presso l’Università di Ferrara, da molti anni in prima linea per la conoscenza delle “origini della specie”. Si potrebbe dire che l’uomo nasce con il “big bang”, cioè con l’inizio di un processo che interessa tutto il pianeta e che, contrariamente alle apparenze, non si è mai realizzato caoticamente, bensì secondo i criteri di risultati possibili. Proprio da una di queste possibilità genetiche è nato l’uomo il quale , però, non rappresenta un fine evolutivo, ma solo uno dei possibili risultati e neppure il più avanzato. Paradossalmente, l’uomo è più vicino dello scimpanzè al progenitore comune. Tuttavia egli, sin da quando ha creato i primi strumenti ha, di fatto, abbattuto la nicchia ecologica e l’originario rapporto con l’ambiente. A differenza dei gorilla, che dipendono da uno specifico biotopo, l’uomo ha potuto espandersi su tutta la terra, creandosi esso stesso un ambiente adatto, l’ambiente antropico. Questo fenomeno conferma il principio generale che la “specializzazione” costituisce un formidabile handicap in termini evolutivi. Tuttavia l’uomo ha il dovere “cosmico” di mantenere sul pianeta la maggiore biodiversità possibile, garantendo la sopravvivenza di ogni specie, fra cui la propria. Quanto a “chi ci ha creato”, anche per uno scienziato agnostico, rimane un problema di fede. Ci sono gli elementi per pensare a tutto e al contrario di tutto.

A Rovereto una rassegna per l’Europa. L’idea di una rassegna annuale del documentario archeologico nasce a Rovereto nel 1990 con il convegno “Paolo Orsi e l’archeologia del Novecento”: si vuole coinvolgere il grande pubblico in un tipo di evento a cui di solito intervengono solo gli “addetti” e si pensa al cinema. Dario Di Blasi, direttore della Rassegna di Rovereto, confessa il suo stupore di fronte alla travolgente crescita di interesse intorno alla manifestazione, che con la prossima edizione (4-9 ottobre) giunge al traguardo del decimo anno. Non tutto è spiegabile con il patrocinio di una prestigiosa istituzione scientifica come il Museo di Rovereto e la forte collaborazione di una rivista come «Archeologia Viva». Sembra proprio che l’avventura e le suggestioni della storia non possano fare a meno del coinvolgimento che solo il cinema è in grado di provocare. In questo «clima di piacevole stupore» Di Blasi tiene a ricordare l’emozione provata di fronte alle grandi platee che lo scorso anno seguirono a Istanbul e a Belgrado due cicli di documentari proposti dalla Rassegna di Rovereto e «Archeologia Viva» in collaborazione con i rispettivi istituti italiani di cultura: «In quella parte d’Europa attraversata da fortissime tensioni, foriere di tragici eventi, ho potuto verificare quanto è importante l’informazione e lo scambio culturale, in questo caso offerti con lo strumento efficacemente mediatico del cinema, per educare al rispetto delle diversità».

Profondità tremila metri. Sono dieci anni che «Archeologia Viva» organizza a Ustica le ormai famose Lezioni di archeologia subacquea. Lo ha ricordato lo stesso sindaco della “perla nera” del Mediterraneo, Attilio Licciardi, portando il saluto degli isolani. Quindi, Roberto Sequi, direttore della locale riserva marina, ha comunicato una notizia importante per quanti amano il Mediterraneo e i tesori, naturali e culturali, che esso conserva. Cogliendo l’occasione offerta da un progetto comunitario, che prevede l’installazione di una stazione automatica a 3500 metri di profondità al largo di Ustica per studiare i movimenti della crosta terrestre, sarà realizzata una sistematica campagna di esplorazione dei fondali profondi intorno all’isola; così si documenteranno, anche da un punto di vista archeologico, zone che sarebbe impossibile indagare per l’alto costo che l’impresa comporterebbe.

Alle origini della scrittura. Gli oltre vent’anni di ricerca trascorsi nel deserto meridionale della Giordania da Edoardo Borzatti von Löwenstern, professore di Paleontologia umana a Firenze, ha dato numerosi frutti. Del più recente e, forse, più clamoroso, Borzatti ha voluto dare un’anticipazione all’incontro di «Archeologia Viva». La sistematica ricerca condotta su di un’area di 2500 kmq di deserto ha consentito di schedare un immenso patrimonio di incisioni e pitture rupestri, databili dall’età paleolitica a quella contemporanea. In questo vero e proprio museo d’arte all’aperto, spicca un cospicuo nucleo di pitture prive di qualsiasi apparente intento descrittivo. Si tratta di segni che hanno per base un semicerchio o un quadrato aperto su di un lato: simboli che si ripetono identici in aree distanti fra loro anche trenta chilometri. La suggestiva ipotesi di Edoardo Borzatti è che si tratti di veri e propri segni grafici riferibili alle popolazioni calcolitiche, cioè dell’età del Rame, che fra il 4800 e il 2800 a.C. abitarono le valli, all’epoca verdeggianti, del deserto giordano. Insomma un sistema di scrittura, forse ideogrammatica, che avrebbe preceduto le prime forme note di comunicazione scritta, il cuneiforme e il geroglifico.

Tuffi di archeologia nuragica. A Maria Ausilia Fadda, della Soprintendenza di Sassari e Nuoro, è spettato ricordare i successi dell’ormai decennale collaborazione fra «Archeologia Viva», le soprintendenze e i comuni della Sardegna sull’iniziativa dell’Esit-Ente sardo industrie turistiche relativa a un vasto progetto di valorizzazione del patrimonio culturale dell’isola dei nuraghi. Grazie alla dedizione dei volontari che tramite la rivista sono giunti in Sardegna è stato possibile indagare numerosi siti altrimenti preclusi. L’insolita formula di turismo culturale fu inizialmente proposta dall’Esit sul nuraghe Mannu, presso Cala Gonone, dove è stato riportato in luce un grande villaggio nuragico sopravvissuto fino all’alto Medioevo. Il felice esito di questo primo esperimento ha indotto le soprintendenze sarde ad aprire altre aree di scavo come quella del nuraghe Sirai nel Sulcis (vicino al famoso sito punico di monte Sirai), del complesso nuragico Lu Brandali sulle Bocche di Bonifacio, di Gremanu alle falde del Gennargentu. Quest’ultimo abitato, che si estende per decine di ettari, costituisce un insediamento di estremo interesse, poiché col tempo assunse le caratteristiche di un grande santuario: all’area sacra appartengono numerosi edifici templari nei quali sono stati rinvenuti bronzetti e armi votive. Oggi, in Sardegna, la collaborazione negli scavi del volontariato è una prassi consolidata, applicata in ben sei diverse aree archeologiche, che oltre a quelle citate comprendono i villaggi nuragici di Pinn’è Maiolu a Villanovaforru (sulle colline della Marmilla) e della dolina del monte Tiscali, in uno dei luoghi più appartati e suggestivi della Barbagia.

Sulle mura di Gerico. La riapertura degli scavi su Tell es-Sultan, la collina artificiale che conserva i resti stratificati dell’antica Gerico, la “città più antica del mondo”, non poteva non suscitare scalpore. Nicolò Marchetti e Lorenzo Nigro, direttori delle ricerche per la parte italiana, hanno illustrato la realtà archeologica del celebre sito palestinese al di là di ogni facile entusiasmo. La fama della città, legata al racconto biblico, fece sì che questo fosse uno dei primi siti indagati archeologicamente sin dalla metà dell’Ottocento. Fra i numerosi interventi succedutisi non si deve dimenticare quello dell’archeologa C. Canyon che, nei nostri anni Cinquanta proprio a Gerico mise a punto il metodo di indagine stratigrafico moderno. Le indagini attuali, condotte in collaborazione fra Università di Roma La Sapienza e Dipartimento palestinese di Antichità, mirano a una ricerca estensiva nell’area dell’antica città fiorita all’ombra della grande oasi, che conobbe il periodo di massimo splendore fra l’antica e media età del Bronzo (3000-1500 a.C.). Quanto alle “bibliche” mura, l’ultima campagna ha messo in evidenza un muro di scarpa inserito originariamente dentro un terrapieno, sopra il quale si ergevano le fortificazioni vere e proprie. I dati stratigrafici dimostrano che questo sistema difensivo appartiene al Bronzo medio (1900-1500 a.C.), ben prima dell’epoca di Giosuè (1300 a.C) a cui fa riferimento la Bibbia per la fine della città. Di straordinario rilievo è l’identificazione di una grande porta urbica, la prima nota a Gerico, fiancheggiata da torri. I risultati delle prime due campagne di scavo giustificano l’entusiasmo della missione, che costituisce anche l’esempio di un’efficace forma di collaborazione fra un’università italiana e la giovane scuola archeologica palestinese.

La civiltà perduta del Rio la Venta. La foresta tropicale nella valle del Rio la Venta, nel Chiapas messicano, costituisce il selvaggio scenario in cui è impegnata, ormai da quattro anni, una spedizione italiana di cui Davide Domenici, ultimo intervenuto all’incontro di Archeologia Viva, è ora il coordinatore. L’antica civiltà degli Zoque (popolo confinario dei Maya che nel XIV sec. d.C. abitava la zona) sta tornando in luce grazie a una sistematica ricognizione, che ha consentito di identificare quasi sessanta grotte, solitamente poste su pareti inaccessibili e utilizzate per rituali sacri. Sono stati individuati anche numerosi centri sparsi nella foresta, di cui il principale conserva ancora integri, piramidi, palazzi e campi da gioco per la palla. Le modalità di occupazione del territorio da parte degli Zoque rispecchiavano quella che era la loro geografia sacra: il mondo dei morti concepito come un regno sotterraneo e acquatico, come acquatico è il sottosuolo carsico di questa regione, solcato da fiumi con portata di oltre 600 milioni di metri cubi di acqua all’anno. Al di sopra, le montagne sacre, traforate da grotte, nelle quali venivano compiuti i rituali e i sacrifici; in mezzo l’uomo con le sue città e i campi. La speranza dei ricercatori non è però solo quella di far luce su una civiltà mesoamericana fino a ieri sconosciuta, ma anche far in modo che tutta la regione venga protetta, al fine di tutelare questa straordinaria commistione di patrimonio culturale e ambientale.

Sono le otto di sera. Al termine del convegno sono ancora presenti ottocento persone, che sfollano quasi controvoglia accompagnate dalle note de La Moldava, di Bedrich Smetana. Le undici ore trascorse fra l’ascolto degli interventi e la visione di filmati che inchiodavano alle poltrone (ma anche fra consultazioni di libri, acquisti di “t-shirt AV”, degustazioni di moscato sardo e abbracci fra compagni che si ritrovano…) hanno dimostrato come sia possibile un approccio scientifico allo studio dell’antichità al tempo stesso divulgativo e affascinante. Si è offerta così una concreta alternativa a quel fenomeno di banalizzazione della cultura archeologica che ha preso campo negli ultimi anni, soprattutto sul piccolo schermo. «Arrivederci al prossimo incontro del 2001 – saluta il direttore di «Archeologia Viva», visibilmente commosso e provato dalla conduzione di quest’infinita, indimenticabile giornata – con la promessa che questo spirito di corretta divulgazione costituirà sempre una caratteristica della nostra rivista».

Fabrizio Paolucci