Homo faber natura: scienze e tecnica nell’antica Pompei Per una storia della cultura scientifica

Archeologia Viva n. 75 – maggio/giugno 1999
pp. 38-45

a cura di Fabrizio Paolucci

La città sepolta dal Vesuvio non offre solo uno spaccato fedele della vita quotidiana e della cultura artistica del mondo antico ma ha conservato un archivio unico sulla cultura scientifica e tecnologica della civiltà romana nella prima età imperiale
Un eccezionale contributo conoscitivo ora divulgato nella mostra in corso al Museo archeologico di Napoli

A partire dal momento della sua scoperta, negli anni Quaranta del XVIII secolo, Pompei è sempre stata considerata un campo di studi riservato agli storici, agli archeologi, agli epigrafisti. Eppure, con la sua eruzione del 24 e 25 agosto del 79 d.C., il Vesuvio non sigillò soltanto un eccezionale museo di arte antica, ma uno straordinario microcosmo costituito da uomini, piante, animali, strumenti, tecnologie, saperi, mestieri. Per esempio, nelle città vesuviane sepolte dall’eruzione è ancora possibile distinguere i solchi scavati per l’irrigazione degli ortaggi, le impronte lasciate dall’erba dei prati o il disegno delle siepi nei giardini. Soltanto negli ultimi decenni la sempre più stretta collaborazione fra scienze sperimentali e archeologia ha permesso di valorizzare al meglio questi dati materiali, consentendo di accrescere notevolmente le nostre conoscenze relative alla vita quotidiana, all’economia, alla tecnologia dell’antichità.

La nuova archeologia – grazie al coinvolgimento di chimici, ingegneri, botanici, biologi, zoologi – può restituire fisica concretezza a tutti gli aspetti della società pompeiana della fine del I d.C. Così i resti di radici, pezzi di legno, frutti, semi, o più semplicemente il polline, consentono di recuperare l’aspetto di giardini dalle complicate geometrie, in cui trovavano ospitalità piante semplici, come la vite, l’olivo, il fico, quasi a ricordare l’originaria funzione alimentare dei più antichi horti. A Pompei non mancavano comunque specie vegetali esotiche, tutte, nel I sec. d.C., di recente importazione in Italia. È il caso del pregiato melone, che Tiberio coltivava a Capri in apposite serre mobili, del ciliegio, del pesco, introdotto dalla Persia nei primi decenni del I sec. d.C. e i cui frutti, come ci racconta Plinio, erano venduti singolarmente ad alto prezzo. Del tutto inaspettato, infine, è il recente rinvenimento di un polline di limone, pianta che si credeva importata dagli arabi solo nell’XI secolo.

Un censimento sistematico ha consentito di identificare sinora ben 470 specie di piante, molte delle quali (oltre 120) trovano accurate riproduzioni negli affreschi pompeiani. L’interesse dei paleobotanici non si è però limitato ai giardini urbani, ma ha coinvolto anche le colture extraurbane, dove piantagioni di ortaggi e vigneti sono ricostruibili nel particolare, con i loro sistemi di irrigazione effettuata a scorrimento entro solchi. Questi dati, relativi a un’agricoltura intensiva nel territorio pompeiano, vengono a integrare quanto già noto archeologicamente da complessi produttivi di natura industriale come quello della villa rustica di Boscoreale, dotata di una cella vinaria in cui trovavano posto ben 84 grossi dolia.
Oltre la fascia coltivata si estendevano le foreste di latifoglie e abeti che risalivano le pendici del Vesuvio e dei monti Lattari, anch’esse sfruttate sistematicamente per soddisfare le continue esigenze edilizie delle città vesuviane. L’esame di un numero considerevole di campioni ha dimostrato l’uso frequente dell’abete bianco, legno evidentemente apprezzato per le sue caratteristiche tecnologiche, come la flessibilità e la facilità con cui poteva essere stagionato e incollato.

Le stesse foreste erano teatro delle cacce ai cinghiali e ai cervi le cui ossa sono state ritrovate in gran numero a Pompei; le zanne dei suidi e le corna dei cervidi costituivano prestigiosi trofei o rari portafortuna, come testimonia una zanna di ben venticinque centimetri che, trasformata in amuleto, conserva i resti di una montatura. Gli animali ricoprivano un ruolo decisivo nella vita degli uomini, costituendo uno strumento irrinunciabile nel lavoro dei campi. In particolare i bovidi e gli equidi erano impegnati all’aratro, alle macine, all’attacco dei carri e costituivano solo marginalmente una risorsa alimentare. Le indagini sulle ossa hanno identificato nel suino l’animale da carne più diffuso a Pompei, mentre senza dubbio meno pregiate dovevano essere le carni di pecore e capre, allevate piuttosto per la produzione di lana e formaggi.

Da non trascurare il ruolo del pesce nella dieta del tempo, specie in Campania. Sul finire del II sec. a.C., nel golfo di Napoli, si ebbe la nascita dell’acquacultura in impianti litoranei con vasche scavate nel banco roccioso o appositamente costruite. Gli iniziatori di questo lucroso commercio, personaggi come Sergio Orata e Licinio Murena, ricordavano anche nei soprannomi le specie ittiche il cui allevamento costituiva la loro specializzazione professionale. A Sergio Orata si deve anche l’introduzione dei vivai di ostriche a Baia, i cui prodotti non mancarono di essere apprezzati anche a Pompei , come dimostrano i gusci rinvenuti nella casa di Caio Giulio Polibio.

Nel ricostruire la fauna delle antiche città vesuviane non possono mancare gli animali da compagnia. Le numerose raffigurazioni pittoriche e i ritrovamenti osteologici (di ossa) sembrano confermare la fortuna che il cane conosceva nel mondo romano. In questo periodo, inoltre, iniziavano a definirsi con chiarezza le diverse razze: cani tarchiati e di aspetto potente, da guardia, e cani più snelli, non dissimili dai nostri levrieri, per la caccia. Assai più rari i ritrovamenti di ossa di gatti domestici, quasi a confermare la quasi totale assenza di questi felini anche nell’arte del tempo. […]