Su Tempiesu di Orune e il culto nuragico delle acque Dentro lo scavo

Archeologia Viva n. 74 – marzo/aprile 1999
pp. 78-83

di Maria Ausilia Fadda

Una delle manifestazioni più affascinanti della religiosità e dell’architettura degli antichi Sardi fu senz’altro quella legata al mondo sotterraneo delle acque in un’isola dove l’approvvigionamento idrico ha da sempre rappresentato un problema

Nelle fasi evolute della civiltà nuragica – così detta dal tipico monumento, il nuraghe, che fra XVII e VII sec. a.C. si diffuse in tutta la Sardegna – furono costruiti in ogni parte dell’isola degli edifici dedicati alla divinità delle acque. Il geografo latino Solino, vissuto nel III sec. a.C., attingendo notizie da storici più antichi, riferisce che i nuragici curavano le malattie delle ossa e degli occhi con le acque raccolte nei luoghi di culto. Essi attribuivano alle acque sorgive proprietà miracolose, anche per detergere i delitti di furto, che venivano definiti invocando il giudizio della divinità sotterranea manifestatesi attraverso l’acqua: questa poteva rendere cieco l’accusato ritenuto colpevole. La religiosità che i protosardi esprimevano tramite il culto delle acque viene ricostruita con maggiore precisione attraverso gli scavi archeologici condotti nei templi a pozzo, nelle fonti e nei templi a megaron (per questi ultimi si veda: AV nn. 57 e 63).

I templi a pozzo sono degli edifici circolari con copertura a tholos (falsa cupola) costruita in forma ipogeica per captare la vena d’acqua. La profondità, più o meno accentuata, della vena ha portato alla costruzione di rampe di scale rettilinee o trapezoidali strombate all’imboccatura, che permettevano la raccolta dell’acqua anche nei periodi di siccità. Il vano scala veniva coperto con elementi architravati scalati, collocati in corrispondenza dei gradini.
Alla sommità della scala è sempre presente un atrio di forma prevalentemente rettangolare o trapezoidale con delle panchine laterali che potevano essere usate quale piano d’appoggio di oggetti e offerte votive. Nel pavimento dell’atrio veniva tracciata una canaletta di scolo per il deflusso delle acque del pozzo quando queste superavano il livello oltre la sommità della scala.

Per la costruzione dei templi a pozzo si impiegavano i materiali lapidei presenti sul posto e appena sbozzati, oppure le rocce vulcaniche, più facili da lavorare e più idonee per realizzare architetture con blocchi perfettamente squadrati (opera isodoma). Ma, oltre che a esigenze estetiche, l’uso frequente di rocce di origine vulcanica, anche in zone della Sardegna dove sono completamente assenti, è dovuto soprattutto al fatto che esse non subiscono alterazioni con l’assorbimento dell’acqua. Il tempio veniva circondato da un recinto (temenos), delimitante un’area sacra riservata ai fedeli che depositavano le offerte votive durante i riti.
Le caratteristiche architettoniche dei templi a pozzo ora descritte sono documentate in tutto il territorio della Sardegna e particolarmente riconoscibili nelle aree cultuali di Santa Cristina di Paulilàtino (Or), Santa Vittoria di Serri (Nu), Sant’Anastasia di Sardàra (Ca), Predio Canopoli di Pérfugas (Ss), Funtana Coberta di Ballào (Ca), Sa Testa di Olbia (Ss). […]