Archeologia Viva n. 73 – gennaio/febbraio 1999
pp. 82-85
di Fabio Maniscalco
Subito dopo i popoli con il loro dramma di stragi e deportazioni sono i beni culturali la vittima designata e silenziosa delle guerre civili nei territori dell’ex Jugoslavia e Albania
Nel 1954, con l’elaborazione della Convenzione de L’Aja per la protezione dei beni culturali in periodo di guerra, si era sperato di riuscire a preservare il patrimonio di ogni stato ratificante da conflitti armati analoghi a quelli che, nel corso della seconda guerra mondiale, avevano portato alla distruzione o al trafugamento di tanti monumenti e opere d’arte. Le novità principali apportate dalla Convenzione stanno nell’utilizzo del termine “beni culturali”, che – meglio dei termini “monumenti”, “oggetti d’arte” o “cose d’arte” – riesce a sintetizzare e definire il soggetto della Convenzione stessa, e nel concetto di universalità della cultura per cui: «…i danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengono, costituiscono danno al patrimonio culturale dell’umanità intera, poiché ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale…». Come ha dimostrato la recente crisi in Albania il limite principale della Convenzione e del Protocollo de L’Aja del 1954 si concretizza nella volontà di tutelare solo quei beni mobili appartenenti a un “territorio occupato” e di non prendere in considerazione l’eventualità di un conflitto civile.
Le cruente esperienze dell’Iraq e soprattutto dell’ex Jugoslavia hanno testimoniato l’assoluta disattenzione, durante un conflitto armato, nei confronti di molti articoli della Convenzione. Basti pensare al segno distintivo, previsto dall’art. 16, che nella città di Sarajevo è stato esposto all’esterno del Museo di stato della Bosnia-Erzegovina e del Museo ebraico per essere, anch’esso, crivellato dal fuoco dei cecchini (e Sarajevo è solo il simbolo di quanto è avvenuto metodicamente in tutti i territori dell’ex Jugoslavia dov’è passata la guerra). Anche tra il personale delle forze armate e delle istituzioni preposte alla tutela del patrimonio culturale delle alte parti contraenti è scarsa la conoscenza dei simboli indicanti la protezione “semplice” e “speciale”.
Sono numerosi gli articoli della Convenzione che dovrebbero essere modificati, aggiornati o riscritti. Ne è un esempio l’art. 9 che prevede, per quei beni posti sotto protezione speciale, l’impegno delle alte parti contraenti di assicurarne l’immunità astenendosi da ogni atto di ostilità e non utilizzandoli per fini militari. In tale articolo, dunque, non è imposta, alla polizia civile o militare degli stati belligeranti, la salvaguardia dei beni culturali attraverso la loro vigilanza e mediante la prevenzione da furti, perpetrati da militari o da truppe irregolari o da civili, ma si parla semplicisticamente di rispetto e di astensione da atti illeciti da parte delle nazioni ratificanti.
Tale lacuna è colmata solo parzialmente dall’art. 7 in cui le alte parti, oltre a prodigarsi per introdurre nei regolamenti o istruzioni in uso alle loro truppe disposizioni idonee all’osservanza della Convenzione, si impegnano a: «[…] predisporre o costituire, sin dal tempo di pace, nell’ambito delle proprie forze armate, servizi o personale specializzati, aventi il compito di assicurare il rispetto dei beni culturali e di collaborare con le autorità civili incaricate della loro salvaguardia». In virtù di tale articolo le forze armate degli stati ratificanti si sono limitate a divulgare poche indicazioni desunte dalla Convenzione de L’Aja; ma nessun esercito è provvisto di personale specializzato da utilizzare in periodo di crisi.
Un primo tentativo di impiegare militari qualificati nella tutela dei beni culturali si è avuto, agli inizi del 1996, nel corso della missione “Implementation force” in Bosnia-Erzegovina dove fu realizzato il monitoraggio del patrimonio culturale della città di Sarajevo. Benché la ricerca fosse limitata a una sola città, i risultati conseguiti sono stati notevoli per due ragioni. In primo luogo si è potuto verificare praticamente l’importanza e le potenzialità dell’impiego di soldati-specialisti nel corso di missioni umanitarie. Inoltre, operando quando gli ultimi focolai della guerra erano ancora accesi e quando il processo di pacificazione era allo stato embrionale, è stato possibile riscontrare sul campo le maggiori problematiche inerenti i beni culturali in tempo di guerra e analizzare le inadempienze più evidenti alla Convenzione de L’Aja. […]