Archeologia Viva n. 73 – gennaio/febbraio 1999
pp. 64-70
di Ada Amadei
Lo scavo di una necropoli di “poveracci” alla periferia della città labronica ha consentito la vivace ricostruzione di uno spaccato di vita quotidiana in età tardoantica
Durante i lavori intrapresi nei dintorni di Livorno per la costruzione di varie infrastrutture, sono state rinvenute notevoli testimonianze d’età romana, tardoantica e del primo medioevo, che lasciano intravedere un movimento d’attività commerciali e artigianali insospettate nella zona per quei periodi. Purtroppo, questi ritrovamenti sono passati pressoché inosservati, le aree archeologiche sono state scavate solo in parte, abbandonate alle erbacce e agli scavatori clandestini, quando non sono state frettolosamente reinterrate. Quanto ai materiali tornati in luce, sono conservati “da qualche parte” perché a Livorno non c’è un museo in cui esporli. Il presente articolo è un tentativo di conservare la memoria di un mondo lontano improvvisamente riapparso e di nuovo inghiottito dall’oblio.
Ho avuto modo di conoscere un gruppo di persone che fra III e VI sec. d.C. abitava nei pressi di Ardenza, appunto alla periferia di Livorno; certo non ho conosciuto questa gente in carne e ossa, ma – mi si consenta la battuta – solo in ossa. Ho partecipato, infatti, allo scavo della necropoli di San Martino in Collinaia, la più vasta area cimiteriale tardoromana finora venuta alla luce in Toscana, un’area archeologica irrimediabilmente perduta perché ora ci passa l’asfalto della variante dell’Aurelia. La necropoli fu individuata nel 1991 durante la costruzione della strada, dopodiché la Soprintendenza archeologica della Toscana affidò a un gruppo di archeologi il recupero delle strutture tombali e alla scrivente il prelievo e lo studio dei reperti ossei.
Le tombe, in parte danneggiate dai lavori agricoli, si trovavano a uno-due metri di profondità. Erano disposte senza un ordine preciso, ma con lo stesso orientamento nordovest-sudest. Non vi erano zone di sepoltura preferenziali o tombe più “belle” che lasciassero intuire una qualche differenziazione sociale; per la loro costruzione era sempre stato utilizzato materiale povero, spesso di recupero. Inoltre uomini, donne, bambini, vecchi erano stati inumati uno accanto all’altro: questo oggi è normale, ma nell’antichità i bambini venivano spesso seppelliti in luoghi appartati, mentre certe aree sepolcrali erano destinate a soli uomini o a sole donne.
Con l’andar dei secoli la terra è penetrata all’interno delle sepolture (molte delle quali “alla cappuccina”) ricoprendo gli scheletri. Purtroppo il terreno argilloso del luogo è poco favorevole alla conservazione dei resti ossei: col caldo e la siccità è duro e compatto, mentre alle prime piogge diventa limaccioso e trattiene l’acqua. Questi continui mutamenti di consistenza dell’argilla e le stesse radici delle piante hanno favorito il deperimento delle ossa: per la maggior parte gli scheletri rinvenuti sono rappresentati solo da pochi elementi. In particolare si sono quasi del tutto dissolti gli scheletri infantili, di cui rimangono solo pochi frustoli ossei e i denti.
Non essendo mai stati rinvenuti nel terreno di sepoltura bottoni, fibule, ecc. che testimonino la presenza di abiti, si presume che il cadavere fosse semplicemente avvolto in un sudario tenuto chiuso da una spilla; forse ebbero appunto questo utilizzo due spille frammentarie rinvenute fra la terra di due sepolture. Le tombe non portavano iscrizioni e ciò, insieme alla totale assenza di corredi, ha creato qualche difficoltà per la datazione della necropoli: solo una moneta e la tipologia delle anfore ha consentito una collocazione tra fine III e inizi del VI sec. d.C.
Le tombe riportate in luce sono state circa 130, ma solo 86 conservavano resti umani; 77 erano monosome (con un solo defunto), nove plurime (con due, tre o quattro inumati). In questi ultimi casi si trattava di deposizioni successive, distanti nel tempo, in quanto le ossa dell’ultimo inumato si trovavano in connessione anatomica, mentre i resti del precedente o dei precedenti defunti erano stati raccolti con cura e risistemati verso il fondo della tomba, sulle gambe dell’ultimo sepolto e ciò fa pensare che fra i vivi che curavano il riadattamento della tomba e i defunti che l’avevano occupata intercorressero particolari legami affettivi. A volte gli inumati erano un uomo e una donna (marito e moglie?) o una ragazzina e un bambino (fratelli?) oppure un uomo e tre bambini (padre e figli? Non è pensabile infatti che dei bambini siano stati sepolti con un estraneo). […]