Il nodo di Salomone: un simbolo per l’umanità Fortuna bimillenaria di un segno

Archeologia Viva n. 71 – settembre/ottobre 1998
pp. 68-81

di Umberto Sansoni

Il nodo di Salomone è uno dei segni più antichi e diffusi
Simbolo pagano paleocristiano ebraico barbarico medievale rinascimentale esso è molto diffuso nell’iconografia dell’Occidente ma ha risalto anche in culture africane amerinde e asiatiche

Chi visita gli scavi di Pompei, Ostia, Sabratha, oppure osserva i corredi funerari barbarici o un codice miniato, o entra nella basilica di Aquileia o in quella di Betlehem o in una abbazia romanica, facilmente si imbatte nel “nodo di Salomone”, un segno formato da due “anelli”, schiacciati o a ogiva o d’altra forma, incatenati fra loro. Ma può trovarne anche nei templi indù, nella ceramica Copan della Mesoamerica, nell’arte copta e nell’arte tradizionale africana, nelle sinagoghe antiche e recenti, in sostanza ai quattro angoli del mondo. È un segno poco vistoso, che non richiama attenzione al primo impatto: inganna il suo porsi modesto, in punti generalmente non focali. Così archeologi e storici dell’arte, nelle rare volte che annotano il segno, lo liquidano come un “decoro”, un “riempitivo” e solo in casi di slancio, ne sospettano vagamente la valenza apotropaica o quella d’eternità. Il nodo di Salomone ha la tipica identità di un simbolo perso nella memoria storica e il cui stesso nome, giuntoci sul filo di una tradizione oscura (comunque precedente al XIII secolo), è incerto nell’origine. Ma è proprio la straordinaria dovizia numerica e la varietà dei contesti in cui compare che rende il nodo penetrabile.

La comparsa accertata del nodo di Salomone è in età augustea tiberiana, nel quadro della ventata tradizionalista (talora riesumativa di antichi culti) voluta da Augusto, pater patriae, il padre della patria: il segno ricorre insistente su tre tappeti musivi della villa dei Volusii Saturnini al Lucus Feroniae (inizi I sec. d.C.) nelle severe partiture geometriche di gusto latino. La villa, alle porte di Roma, sorge vicino al bosco sacro della dea Feronia e rappresenta un prototipo di quella tradizione austera, ordinata, aniconica che a lungo si contrapporrà al cromatismo e al figurativo di stampo ellenistico. Il nodo è già nelle formulazioni che saranno tipiche di tutta l’età imperiale: ad anelli schiacciati, peltato (con pelte sulle braccia a comporre una sorta di svastica) e associato a trecce, pelte, fiori e svastiche meandriformi.

È probabilmente il prestigio della formula tradizionalista augustea che determina la fortuna del segno. Nel I sec. d.C. lo ritroviamo a Pompei, Ostia, Stabia, Nora, Aquileia, Breno (Bs): in quest’ultima località è nel santuario di Minerva, come il segno più ricorrente nel tappeto della cella centrale, a fianco di motivi ondulati (acquatici), scacchiere (simbolo del destino), edere (fedeltà o immortalità), delfini (animale simbolo complesso, di fortuna e protezione). A Pompei, Stabia e Ostia prevale invece la valenza apotropaica del motivo di soglia, insieme talora agli scudi incrociati (segno molto simile nella foggia e simbolicamente affine) o ai “fulmini di Giove”.

Nel II sec. d.C., con il più decisivo affermarsi del mosaico, il nodo costella decine di stesure musive nelle province, dall’Hispania alla Siria, dall’Africa alla Britannia e avrà un crescendo di fortuna nel III e IV secolo lungo tutta l’era “pagana”. In trame dove progressivamente prevale la ricca voga ellenistica il nodo correda gli emblemi musivi di dei ed eroi; è quasi l’intero pantheon che lo vede campeggiare a fianco dei segni anzidetti e di altri come la spirale (evoluzione ciclica), i fiori (talora simbolo d’anima o virtù), l’acanto (trionfo), altre fogge di nodiformi ma soprattutto ancora trecce, edere e meandri a svastica (simbolo dinamico del ciclo naturale e divino). […]