Phoinikes bsrdn: i Fenici in Sardegna Le grandi civiltà del Mediterraneo

Archeologia Viva n. 66 – novembre/dicembre 1997
pp. 68-78

a cura di Carlo Tronchetti

La mostra in corso a Oristano propone una sintesi affascinante della presenza fenicia sull’isola
A partire dalla prima colonizzazione ne esce la storia di abili mercanti e marinai dei loro rapporti con le popolazioni indigene degli scambi culturali artistici e religiosi e di quel che avviene col passaggio alla romanità

Ancora una mostra sui Fenici? Sì, ancora! Ma non per cercare di ripetere, con stanca mancanza di inventiva, il successo dell’inimitabile esposizione di Venezia nel 1988, come si potrebbe pensare a prima vista. Vediamo dunque cosa contraddistingue la nuova esposizione (a Oristano fino al 30 novembre), intitolata con il criptico e intrigante nome “Phoinikes bsrdn”, ovvero ‘‘i Fenici in Sardegna’, ripreso dalla celebre iscrizione della stele di Nora, dove compare per la prima volta il nome dell’isola.

L’archeologia fenicio-punica in Italia è una scienza in costante evoluzione, nell’ambito della quale la Sardegna occupa un ruolo trainante. Le novità degli ultimi anni sono state tante e tali da portare alla pubblicazione di un volume, La penetrazione fenicia e punica in Sardegna trent’anni dopo (Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1997), scritto dal padre degli studi fenici e punici in Italia, Sabatino Moscati, assieme a due suoi (accademicamente) vecchi allievi, Piero Bartoloni e Sandro Filippo Bondì. In quest’opera viene radicalmente aggiornato quanto Moscati stesso in precedenza aveva dedicato alla Sardegna, alla luce dell’impressionante messe di scoperte che l’isola ha continuato a produrre.

Uno degli scopi della mostra di Oristano è proprio quello di presentare le novità sulla Sardegna fenicia e punica, un obiettivo, questo, che è (o dovrebbe essere) sempre presente fra gli scopi del nostro lavoro di archeologi, per diversi motivi: perché rendere noti i risultati delle ricerche è un diritto-dovere, per rendere conto dell’impiego che facciamo del (poco) pubblico denaro che ci viene messo a disposizione, e un po’ – confessiamolo – per legittima soddisfazione personale.

La scelta espositiva si è calata nel quadro contestuale degli oggetti, in un’ottica che supera il valore del pezzo in sé, come valenza estetica o anche testimonianza di modi di vita, per appuntarsi sul significato che assume per la sua situazione di ritrovamento. Per intenderci, un pezzo isolato, anche magnifico e in perfetto stato di conservazione, un gioiello d’oro, tanto per fare un esempio che colpisce sempre la fantasia, a meno che non si tratti proprio di un esemplare mai visto, in fondo non ci dice molto rispetto a quello che già conosciamo sulla produzione artigianale punica del settore.

Pochi frammenti di ceramica, sia fenicia che greco-geometrica, come quelli provenienti dal cronicario di Sant’Antioco (antica Sulci), rinvenuti nello stesso contesto (battuti pavimentali di abitazioni fenicie), ci dicono invece tante cose e ancor di più ne suggeriscono, stimolandoci a indagare e riflettere. Per questo, a fianco di indubbi pezzi rilevanti in sé, abbiamo esposto anche un po’ di quei “cocci”, temutissimi dagli organizzatori di mostre perché – dicono – allontanano i visitatori. Io non credo che sia così. Credo che i cocci respingano il pubblico dei non esperti quando non viene spiegata la loro funzione nell’articolazione dei ragionamenti che portano poi gli archeologi alle ricostruzioni storiche. Sono problemi di comunicazione e di linguaggio…

Si parte dalle prime fasi della colonizzazione fenicia, datate nell’VIII sec. a.C., esaminando le situazioni offerte dagli insediamenti costieri, la penetrazione nell’interno e gli esiti dell’incontro con le popolazioni locali. Abbiamo gli eccezionali ritrovamenti del nuraghe Santa Imbenia di Alghero (Ss), dove si individua la presenza di genti orientali in un contesto indigeno, e quelli del già citato cronicario di Sant’Antioco (Ca), la più antica colonia fenicia scavata finora, che si evolverà in una grande metropoli. Troppo lungo sarebbe citare i contesti esposti; basterà ricordare come siano presentate situazioni complementari e diverse: dalla grande città al piccolo centro costiero commerciale come Cuccureddus di Villasimius (Ca), a un altrettanto piccolo centro, stavolta di penetrazione nell’interno, qual è Monte Sirai (Carbonia, Ca).

I corredi tombali della necropoli fenicia di Bithia, scoperta presso Torre di Chia (Domusdemaria, Ca), introducono un altro scottante problema, quello dei rapporti dei Fenici con le genti del posto. Infatti alcune tombe propongono incinerati dentro vasi indigeni, mentre in altre sono stati ritrovati gli oggetti reali da cui sono derivate le famosissime “faretrine nuragiche”, in realtà amuleti che raffigurano, in forma miniaturistica, un fodero in cui da una parte sta un pugnale mentre dall’altra si trovano tre stiletti. Ebbene, in alcune tombe di Bithia della fine del VII sec. a.C., sul petto del defunto si è rinvenuto, non più il fodero, ormai consumato, ma il pugnale che poggiava sopra tre stiletti.
Questi elementi ci permettono di comprendere che nella necropoli sono sepolti, a fianco dei Fenici, anche individui appartenenti alla popolazione locale (a questi livelli cronologici l’uso nei corredi sacri o funerari di oggetti carichi di un particolare valore per un popolo significa che l’individuo apparteneva a quel popolo), evidentemente di un notevole rilievo politico, che si erano trasferiti nella nuova città costiera.

Se questo avviene nel sud dell’isola, dove sono frequenti le colonie fenicie, nella parte più settentrionale, forse meno appetibile perché un po’ al di fuori delle rotte verso la penisola iberica e priva dell’attrattiva dei giacimenti minerari del Sulcis-Iglesiente, gli esiti dell’incontro con i Fenici si rivelano nella produzione artigianale e nell’arrivo di oggetti singoli, ma altamente significativi perché sono la spia dei contatti a distanza fra le due etnìe. Le notevoli scoperte di Nurdòle (Orani, Nu) ne sono un esempio eclatante. […]