Una giornata particolare I Incontro AV

Archeologia Viva n. 65 – settembre/ottobre 1997
pp. 70-75

di Autori Vari

È stata quella che Archeologia Viva ha organizzato a Firenze per i propri lettori con la partecipazione di alcuni grandi protagonisti della ricerca archeologica… e il Palacongressi straboccava di una folla ordinata che voleva incontrarsi e capire

Ci abbiamo provato e credo che ci siamo riusciti: dico noi della redazione, i collaboratori più vicini alla rivista, i lettori e, in particolare, i “militanti” dell’archeologia, ovvero quelli che in qualche modo, attraverso scavi, viaggi, corsi, rassegne… vivono la disciplina in prima persona. Tutti insieme abbiamo realizzato un evento indimenticabile che dà la misura del nostro comune sentire. Non si spiegherebbe altrimenti quella moltitudine di presenze (fra mattina e pomeriggio sono arrivate quasi millecinquecento persone!) che il 13 aprile scorso ha risposto all’invito per il “I Incontro nazionale di Archeologia Viva” nella splendida cornice del Palacongressi di Firenze. Il “viaggio” attraverso il tempo e le esperienze personali di alcuni personaggi rappresentativi della ricerca e della divulgazione archeologica in Italia (una sintesi degli interventi ci viene proposta a seguire dal bravo Graziano Tavan) è iniziato alle 9 per finire alle 19.30, praticamente senza interruzioni. Questo significa che, fra l’altro, ho potuto osservare i volti e le espressioni dei miei lettori, rimasti inchiodati come me per dodici ore di fronte all’appassionante teoria delle relazioni e dei film. E li ho trovati come me li aspettavo: intensi, appassionati, anche ansiosi, di persone alla ricerca del significato dell’esistenza, quella dei singoli e quella delle entità sociali, insomma di tutto quanto ha portato all’umanità attuale. Per capire sé stessi e gli altri. Perché è chiaro che noi, oggi, nella nostra dimensione profonda, non siamo figli né della rivoluzione industriale, né di quella francese, ma l’esito di una storia lunga cinque milioni di anni. Ci rivedremo? Penso proprio di sì. È legge di natura per le persone che stanno bene insieme.

Piero Pruneti


La prima donna-dea in Occidente. Iside, colei che ha fatto sì che le donne siano più importanti degli uomini: con questo concetto una delle più note dee del pantheon egizio ha fatto breccia in Occidente, il cui mito è giunto fino ai giorni nostri. Ma il mito di quale Iside (o Isi, come sarebbe più corretto dire)? L’egittologa Edda Bresciani, prendendo spunto dalla grande mostra a Milano, percorre a ritroso nel tempo la nascita del culto e del mito di Iside che noi conosciamo dalle manifestazioni in età tolemaica. E prima? Le testimonianze sulla dea nell’Antico Regno si riducono alla sua esistenza, al suo rapporto con Osiride (Osiri), associata a riti funerari. Nel Medio Regno, sui sarcofagi, troviamo già il mito di Iside sorella, sposa, vedova e madre. È in questo periodo che nasce il più antico dramma mitologico della letteratura mondiale: Iside è divenuta incinta di Osiride con arti magiche. Horus è quindi il figlio del miracolo, figlio di una dea vergine e maga, senza marito. Solo nel Nuovo Regno le attribuzioni della dea appaiono sviluppate, insistendo sulla grande intelligenza di questa donna che vuole diventare dea. E ci riesce. Quanto a Osiride, tocca a lui il gran finale del primo intervento della mattina, con la presentazione de Il volto di Osiri. Tele funerarie dipinte nell’Egitto romano (Maria Pacini Fazzi Editore): l’ultimo volume e una grande scoperta di Edda Bresciani.

Archeologia, scuola di tolleranza. Ma l’archeologo è proprio quello studioso che vive con la testa rivolta al passato, lontano, ozioso, privo di interesse verso l’attualità? Si chiede l’orientalista Paolo Matthiae, prima di affrontare quel meraviglioso viaggio che è stata ed è la sua vita di archeologo. E dirime subito ogni dubbio: certamente no, perché non c’è scoperta più concreta di quella archeologica; perché è un mestiere affascinante per chi lo fa, un mestiere in cui si fondono e armonizzano aspetti materiali e intellettuali; e poi perché, ogni volta che si trova qualcosa, noi facciamo un percorso intellettivo tra identità e alterità, cioè scopriamo come ciò che si è ritrovato sia vicino e lontano da noi. E quindi l’archeologia è una buona scuola di tolleranza perché insegna a distinguere l’alterità dall’identità. L’errore dell’Occidente è di appropriarsi delle culture antiche, mistificandole e quindi annullandole. Azzerare gli altri, assimilandoli è tipico di una cattiva divulgazione attraverso una deleteria banalizzazione. Per questo Matthiae, dopo aver scoperto Ebla e studiato a fondo la cultura, la società e l’arte del Vicino Oriente, ha deciso di scrivere un compendio enciclopedico per i tipi di Electa su La storia dell’arte dell’Oriente antico, abbandonando una volta per tutte il “senso del prodigioso”, atteggiamento con il quale siamo stati abituati a vedere e leggere le civiltà orientali, a partire dall’egizia. Dobbiamo cioè liberarci di quei pregiudizi legati alla cultura classica e al cristianesimo medievale, secondo i quali quelle civiltà rappresentano le tenebre, prima della luce che viene portata dalla storia. Paolo Matthiae, nella sua opera, scardina il concetto che non c’è storia prima del monoteismo o della filosofia greca. E dà una lettura della Mesopotamia applicando alle opere là scoperte o realizzate gli stessi criteri della storia dell’arte applicati al mondo classico, e ricostruendo il contesto culturale in cui esse furono fatte.

“Feudalesimo” e “borghesia” all’Accesa. Non fu una migrazione di massa. Almeno questa è una certezza. Gli Etruschi sono un “popolo di risulta”, formatosi sul suolo italiano, dove erano giunti piccoli gruppi da molte parti del bacino del Mediterraneo, dall’Egeo alla Sardegna, ma anche dall’Europa centrale, attratti dall’idea di spostarsi in una terra ricca, dove si poteva vivere bene e arricchire. Siamo nell’VIII sec. a.C.: il mondo occidentale ha bisogno di metalli, e scopre che l’Etruria offre un suolo e un sottosuolo ricco, adatti quindi all’agricoltura ma anche all’attività estrattiva. Gli Etruschi furono abilissimi a sfruttare le miniere. Nell’VIII secolo il grande centro minerario di Vetulonia aveva un’importanza pari a quella che oggi ha Milano. E collegato a Vetulonia non solo c’era il noto insediamento di Massa Marittima, legato alle miniere metallifere, ma anche un altro sito, nei pressi dell’attuale lago dell’Accesa, del quale ignoriamo il nome originale, che è il più antico nucleo abitato etrusco finora scoperto. L’insediamento dell’Accesa, studiato da Giovannangelo Camporeale, sta dando grandi informazioni sulla vita degli Etruschi nell’VIII secolo. Questo grande centro era organizzato in quartieri autonomi, legati a una determinata e specifica area mineraria da sfruttare. Ma quello che è singolare è la loro articolazione interna. In alcuni ci sono case di sette e altre di uno o due vani, a identificare una struttura sociale gerarchica con al centro il palazzo del patrono circondato dalle piccole abitazioni dei clienti. Gli alloggi con sei-sette stanze, sono disposti attorno a uno spazio centrale libero: una piazza, dove si incontravano gli abitanti del quartiere che erano tutti di pari grado. All’Accesa, dunque, convivono elementi di organizzazione “feudale” e altri di una democrazia collegata alla “borghesia” imprenditoriale.

Preistoria, fase iniziale della storia dell’uomo. È tempo di smetterla di parlare di crani, selci o utensili, di riempire libri su libri di analisi metriche, tanto che le ricerche scientifiche sono procedute finora sempre allo stesso modo: rilevo, catalogo tipologicamente, compilo tabelle, diagrammi e statistiche. È in definitiva un’accurata documentazione dell’esistente. Basta con tutto questo: compito dell’archeologo è offrire una documentazione del passato, ma nel senso di studiare l’uomo in quanto tale, di vedere da vicino la sua natura. Picchia a fondo la provocazione dell’antropologo Carlo Peretto deciso a «cambiare strada». Anche il termine Preistoria è trattato in modo riduttivo, quasi come contrapposizione di una fase più antica a una più recente che è appannaggio dell’archeologia. Invece la Preistoria – sostiene Peretto – non è altro che la fase formativa dell’uomo, una fase dell’unica storia dell’uomo che inizia alcuni milioni di anni fa. L’uomo appartiene a un complesso sistema naturale: i reperti che abbiamo sono sufficienti per andare oltre la semplice lettura evolutiva.

Gli Inca vengono dalla foresta. Corre l’anno 1532. In Spagna regna Carlo V e in Perù il generale Pizarro si incontra con il capo inca Atahualpa: contrapposti settantamila guerrieri inca armati di lance e 178 conquistadores con colubrine e cavalli. Atahualpa riceve in dono una Bibbia. Ma quel libro gli è incomprensibile e lo butta. È il segnale dell’attacco. Atahualpa è fatto prigioniero e per il suo riscatto lui promette di riempire d’oro una stanza fin dove si può arrivare con la mano. Pizarro non sta ai patti e uccide Atahualpa, nascondendo l’oro: è il mito dell’El Dorado. Gli spagnoli riconoscono il fratellastro Huascar nuovo capo: un re travicello. La capitale Cuzco è messa sotto assedio, ma quando Pizarro già ipotizza il peggio scopre che l’esercito incaico è scomparso, gli uomini sono tornati al lavoro nei campi. Perché le popolazioni amerinde non reagiscono? Perché non riescono a sopraffare gli spagnoli pur essendo numericamente superiori? Gli spagnoli, spiega Giancarlo Ligabue, rappresentano quell’uomo bianco il cui arrivo era annunciato e di cui si sapeva essere protetto da dèi più fortunati. Quindi ogni possibilità di successo era esclusa. Così la rassegnazione vince gli Inca che tornano nella foresta. È un esodo biblico, ma non è un percorso nuovo. Quegli uomini seguono percorsi antichi. In vent’anni di ricerche il Centro studi Ligabue è riuscito a ricostruire la koinè culturale delle popolazioni amerinde i cui segni si trovano in tutto il Sudamerica. E a confermare che gli Inca vengono dalle foreste sono anche alcuni elementi della cultura incaica, come il giaguaro e l’anaconda, animali della foresta, o alcuni cultigeni incaici, come mais, patata, coca, che hanno origine proprio nella foresta.

L’oro di Troia: dietro il mito una verità storica. Ora che il mondo ha potuto ammirare il tesoro “di Priamo”, esposto al museo Puskin, ripercorrere le vicende che hanno portato alla sua riscoperta, dopo cinquant’anni di oblìo, nascosto in poche casse portate dall’armata rossa da Berlino a Mosca, è come veder scorrere una autentica spy-story, attraverso la guerra fredda prima e l’Europa successiva alla caduta del muro di Berlino poi. L’accademico Louis Godart si sofferma sulla figura di Schliemann, lo scopritore, uomo colto e fortunato, affascinante e spregiudicato, l’uomo d’affari tedesco che nell’ultimo quarto del secolo scorso fa riscoprire all’Occidente il mondo degli eroi greci, dimostrando che i miti nascondono sempre una verità storica. Così veniamo a comprendere il ruolo storico di Troia, ricca e potente roccaforte che nel III millennio a.C. controllava le rotte del Mar Nero e i commerci dell’Oriente. Ma a Troia si deve anche l’esportazione delle culture metallifere dell’Oriente: le civiltà egee avevano, infatti, tutto l’interesse a commerciare con Troia perché avevano bisogno di quei metalli che né Creta né le altre isole potevano fornire. Per questo i minoici all’alba del II millennio a.C. fondarono una base economica a Samotracia, giusto di fronte a Troia.
Questo fatto storico, sottolinea Godart, è ricordato anche da un mito greco, quello degli Argonauti, che parla proprio di una migrazione dei greci verso il Mar Nero. In questo senso Schliemann non sbagliava quando scommetteva sulla verità dei poeti antichi. Ma ora il tesoro “di Priamo”, che già servì a Schliemann per farsi accettare nei salotti culturali tedeschi, riuscirà a diventare un bene dell’umanità? Secondo Gianni Cervetti (coautore con lo stesso Godart di un prezioso libro edito per i tipi di Einaudi, appunto su L’oro di Troia), questo è destinato a rimanere un “ostaggio della storia”, oggetto di trattativa politica tra Russia a Germania, senza possibilità di vedere una soluzione in tempi brevi.

Il documentario fa cultura. Non è vero che i bei film sono solo quelli del cinema fiction. Dario Di Blasi, direttore della Rassegna del cinema archeologico di Rovereto, è convinto che esista una produzione di tutto rispetto, quella del settore documentario, che dovrebbe trovare spazi nelle nostre sale cinematografiche e che invece è lasciata ai margini dal mercato. La documentaristica rappresenta un mondo di piccoli produttori che affrontano sacrifici enormi senza avere poi un riscontro economico e neppure particolare attenzione dai grandi network e mezzi di comunicazione. La stessa Rai è assente. Il festival di Rovereto – spiega Di Blasi – svolge un lavoro di sensibilizzazione e provocazione, per portare i filmati di qualità in più luoghi, ambienti e circostanze. Non si tratta solo di difendere i film archeologici (che a differenza dei documentari naturalistici sono considerati ben poca cosa), ma anche di impedire (perché il rischio è reale) l’americanizzazione del messaggio a fini di audience e spettacolo.

Il faraone aveva visto giusto. Raccontare come nasce e muore un programma di successo dedicato a temi archeologici come “L’occhio del faraone”, è un po’ toccare con mano l’interesse e l’attenzione che c’è da parte del servizio pubblico per le civiltà del passato. Luigi Necco, giornalista della Rai, mettendo a frutto studi, conoscenze, caparbietà, tempo, i propri soldi e un po’ di fortuna, riesce a venire a capo dell’intricata vicenda del tesoro di Priamo, arrivando ad avere le prove che è conservato, o meglio nascosto a Mosca. Quasi come un premio – ricorda – la Rai gli permette di realizzare “L’occhio del faraone”, una trasmissione che si produceva con poco, seguendo le avventure degli archeologi italiani in Italia e nel mondo. È stato proprio grazie a loro che il giornalista capisce come l’archeologia non è quel racconto umanistico che si legge sui libri di scuola, ma è un’altra cosa. Questo messaggio più complesso, ma anche molto più avvincente, Necco lo trasferisce in immagini: è la ricerca del segno del tempo. La trasmissione riscuote successo e, fortunatamente, la sospensione del programma è solo temporanea: ora il “faraone” risuscita in “Geo e Geo” (Rai Tre, ore 18) che una volta a settimana è interamente dedicato all’archeologia. Ma l’attende la prima serata…

Da Leonardo allo Stas. Di ricerche subacquee si dovrebbe già parlare dal XV secolo quando il cardinale Colonna incarica Leon Battista Alberti di indagare sui fondali del lago di Nemi – afferma l’archeologo subacqueo Luigi Fozzati -. È allora che si individuano le due navi di Caligola che però verranno recuperate 450 anni dopo, durante il Ventennio. Ma anche nel Rinascimento si fanno progetti ingegneristici per andare sott’acqua. Lo stesso Leonardo disegna macchine sub. E poi alla metà del secolo scorso, con la grave siccità che fa abbassare i livelli di tutti i laghi in Europa, c’è un rifiorire di studi e ricerche sulle palafitte. Ma è solo con il 1943 che si può parlare di vere immersioni, cioè con l’invenzione del respiratore ad aria da parte dell’ingegner Gagnan e del comandante Cousteau. È l’inizio dell’era dei sub, che per molti anni avrà carattere eminentemente sportivo. Non mancano le scoperte, a opera soprattutto di volontari. Negli anni Cinquanta-Sessanta anche in Italia iniziano le grandi esplorazioni: Alessandro Fioravanti scopre il villaggio palaffitticolo del Gran Carro nel lago di Bolsena, Gino Brambilla i relitti all’isola d’Elba, Guido Giolitto le palafitte del lago di Viverone. L’archeologia subacquea, però, non è ancora una disciplina autonoma; e mentre molti sub senza scrupoli razziano i fondali, ministeri e università sembrano ignorare l’importanza di questo settore della ricerca. I primi incontri scientifici risalgono agli anni Sessanta-Settanta (a Ustica, nelle Eolie, a Favignana, a Ponza), cui partecipano soprattutto tecnici subacquei. Negli anni Ottanta si passa dall’archeologia delle scoperte sottaciute – sottolinea Fozzati – all’archeologia subacquea urlata, anche se sempre legata al caso. Pensiamo al recupero dei bronzi di Riace: la mostra seguìta al restauro decreta il successo delle due statue, non certo dell’archeologia subacquea. Solo nel 1986, il Ministero per i Beni culturali istituisce il Servizio tecnico dell’archeologia subacquea (Stas). Ora l’archeologia subacquea è passata alle soprintendenze: ognuna deve organizzare un proprio nucleo operativo. Questa scelta è esattamente l’opposto di quanto sta avvenendo in Europa, dove ci sono centri nazionali specializzati in archeologia marina, o lacustre e fluviale.

Mare e archeologia come risorsa economica. Ustica può a buon diritto essere indicata come punto di riferimento per l’impegno nella tutela e valorizzazione del mare e dei beni culturali. Parola del sindaco Attilio Licciardi e del direttore della Riserva marina Roberto Sequi, che ricordano come l’isola stia investendo, da oltre dieci anni, sulle sue risorse ambientali e culturali (istituzione della Riserva, creazione di itinerari subacquei, parco preistorico, realizzazione dell’antiquarium…). Un esempio di impegno civile e intelligente promozione economica che viene dal sud. Per questo Ustica si sta battendo perché nel nuovo museo archeologico trovino posto quelle testimonianze della storia dell’isola, preistoriche, romane e puniche, oggi in gran parte conservate a Palermo.

Il mio viaggio in Iran. È il viaggio dell’archeologo Giorgio Bejor in questa terra antica, che non appartiene al mondo mediterraneo, ma dal quale non può dirsi estranea costituendo la naturale cerniera tra civiltà occidentali, indiane ed estremo-orientali. Così nella testimonianza diretta, l’uomo e l’archeologo colgono i segni del contatto: Susa, dove passò Alessandro Magno con il suo esercito; la città di Ciro, dove basta il nome per evocare l’Ellade; Persepoli, dove sembra ancora di scorgere tra gli affollati cerimoniali la figura di Serse; le tombe di Dario e Serse, scavate nella roccia. E non ci sono solo le città dei Sassanidi, che conosciamo per i ripetuti scontri con i romani, ma anche quei centri toccati dalle grandi strade carovaniere, le stesse che percorse Marco Polo. E tutto intorno il fascino culturale dell’Islam.

Incontro con i nuragici. È emozionata mentre parla, Maria Ausilia Fadda, archeologa della Soprintendenza di Sassari e Nuoro, spesso costretta a denunciare devastazioni e danneggiamenti e stavolta, invece, venuta per fare il bilancio, più che positivo, di un’iniziativa realizzata in Sardegna insieme a Esit e «Archeologia Viva»: l’Operazione Nuraghe Mannu, a cui hanno partecipato finora oltre trecento volontari. Si è partiti dal disboscamento dell’area del villaggio nuragico presso Cala Gonone, sulla costa orientale della Sardegna; quindi si è proceduto alla rimozione dei crolli, così da poter leggere una ricca stratigrafia che va dal XIII sec. a.C. al IV sec. d.C. Si è visto che i romani avevano costruito le proprie case smantellando il precedente villaggio nuragico, riutilizzando i materiali (anche stele di tombe di giganti) dell’antico abitato. Visto il successo dell’Operazione Nuraghe Mannu, quest’anno è stata avviata anche l’Operazione Gennargentu, in località Gremanu di Fonni. Qui lo scavo ha portato in luce un complesso di fonti e di templi e sono stati recuperati migliaia di bronzetti e altri oggetti che rivelano contatti con tutto il mondo mediterraneo.

Un tuffo nell’età della pietra. È un viaggio direttamente nella Preistoria, quello vissuto e raccontato dal giornalista Viviano Domenici, a duemila metri di altitudine nel villaggio pigmeo di Langda, in Nuova Guinea: poche centinaia di individui, alti uno e quaranta, vestiti gli uomini con astuccio penico, le donne con gonnellino. Questa popolazione vive di agricoltura (soprattutto tuberi), alleva piccoli maiali e qualche gallina. Ma tutta l’economia del villaggio si basa (o, forse, si basava) sulla produzione di asce di pietra, che vengono scambiate con conchiglie, piume di uccelli, giunchi per fare il fuoco. Un’ascia vale una moglie, o due maiali. Per produrre un’ascia un uomo lavorava 35-40 minuti; la lunghezza degli strumenti prodotti varia da 15-25 a 50-60 cm. Il 25 per cento delle asce si rompe durante la lavorazione. Quelle buone vengono lisciate e poi immanicate… In pochi anni le abitudini sono cambiate profondamente. Ora accanto alle asce hanno una fotocopiatrice… Un segno inequivocabile del destino di queste sopravvivenze quando vengono a contatto con la cultura “occidentale”.

Graziano Tavan