Una casa all’Aracoeli Alla scoperta di Roma antica

Archeologia Viva n. 64 – luglio/agosto 1997
pp. 46-51

di Carlo Pavia

Con la loro capacità di ospitare vere moltitudini di inquilini le insulae consentirono l’enorme sviluppo demografico della capitale dell’impero
L’unica rimasta a Roma si trova ai piedi del Campidoglio e visitarla è un vero tuffo nella vita quotidiana e popolare dell’Urbe

Se a Roma si contava, nel I sec. d.C., circa un milione e mezzo di abitanti, viene spontaneo domandarsi dove abitasse tutta questa gente, e in quali condizioni, visto che almeno la metà della superficie urbana era occupata da spazi monumentali e grandiosi edifici pubblici. Sappiamo ovviamente dell’esistenza di molte domus (case signorili) e di ampie insulae (caseggiati popolari ad appartamenti), ma per quanto riguarda queste ultime le testimonianze archeologiche non sono abbastanza esaustive. Infatti, tali enormi fabbricati non si sono conservati che per un’altezza molto modesta (da qualche centimetro a un paio di metri); ne consegue che se è facilissimo tracciarne la pianta è altrettanto difficile ipotizzarne l’alzato.

Perciò l’immagine che abbiamo di questi antichi palazzoni di Roma, così come spesso ci vengono presentati nei plastici, è frutto di un notevole sforzo induttivo e ci deriva dalle uniche fonti disponibili, ovvero i commenti sparsi nei testi degli autori latini, i frammenti della grande pianta marmorea di Roma antica (la Forma urbis severiana) e i raffronti che possono esser fatti con le insulae di altre città, soprattutto con quelle della vicina Ostia, considerata copia della Roma imperiale.

Di questi grandi caseggiati, abitati prevalentemente da gente in affitto, a Roma si conserva un unico esemplare, quasi intatto, alle pendici del Campidoglio, sotto le scalinate dell’Aracoeli. Notizie delle strutture relative a questo edificio, appunto l’insula o casa romana dell’Aracoeli, erano già state fornite nel 1744 da Gregorio Terribilini, cappellano della chiesa, il quale scriveva sul suo diario di aver visto sotto la cappella di S. Antonio d’Aracoeli degli archi con un pavimento in mosaico. Anche lo studioso Carlo Fea, più tardi, nel 1820, notò le stesse cose e aggiunse di aver ammirato stanze di buona cortina a vari piani. Quanto all’archeologo Rodolofo Lanciani, in un suo rendiconto, tenne a precisare l’esistenza di un’ampia sala rettangolare, coperta a volte e con pareti di ottima opera laterizia; lo stesso ebbe anche modo di ritrovare il mosaico visto tanti anni prima dal Terribilini.

Fra il 1928 e il 1930 si compì l’opera di demolizione di tutte le case che nel corso dei secoli erano sorte su queste strutture antiche. Nell’ambito dei più e meno noti scempi archeologici e urbanistici dell’epoca, fu rimossa la settecentesca chiesa di S. Rita lasciando scoperto l’antico campanile e il sacello della primitiva chiesa attribuita all’XI secolo. L’edificio medievale fu smontato completamente come un immenso gioco di costruzioni e successivamente rimontato un po’ a valle, nella zona del teatro di Marcello.

Rimosse le strutture medievali tornò dunque alla luce un gigantesco palazzo, con stanze ampie e ben conservate, che si elevava per un’altezza di almeno cinque piani (quattro addirittura ancora visitabili), più probabilmente altri due fin sotto gli attuali Musei Capitolini. La notizia di tale recupero fu data nel 1930 direttamente dall’archeologo A. M. Colini che ebbe modo di studiare l’intero edificio, insieme all’architetto Italo Gismondi (lo stesso che progetterà il famoso Plastico di Roma antica, oggi nel Museo della civiltà romana all’Eur). […]