Dov’è l’archeomanager? Opinioni

Archeologia Viva n. 63 – maggio/giugno 1997
p. 93

di Baldassarre Conticello

Una fruizione dei beni archeologici al passo con i tempi necessita di una nuova capacità gestionale

La Legge Ronchey ha portato alla luce un problema, che s’era già posto allorché i beni culturali furono ammessi, negli anni Ottanta, a fruire dei finanziamenti Fio. I dirigenti tecnici di un Ministero, quello dei Beni culturali, nel quale ciascuno gestiva 3-4 miliardi all’anno, si trovarono, improvvisamente, di fronte al compito di gestirne molte decine, con termini di scadenza perentori, e con l’esigenza – e finalmente la possibilità – di progettare interventi di largo respiro, cessando di coltivare solo i propri giardinetti personali (lo scavetto o la tomba da esplorare, il quadro o il monumento da restaurare). Taluni protestarono perché si chiedeva loro di maneggiar grandi somme di denaro, cui si sentivano inadeguati, altri affermarono la non legittimità di fissare una scala di valori, allorché furono posti di fronte all’ingrato obbligo di stabilire rigide priorità e di calcolare gli interventi sulla base dell’ovvio rapporto costo-beneficio, che imponeva tuttavia, di cessar dal considerare tutti i materiali importanti alla pari.

Dinanzi a questa reazione, almeno perplessa, ma soprattutto disgustata e contraria, della maggior parte dei colleghi, non mancarono d’inserirsi coloro, estranei alla dirigenza scientifica, che suggerirono di relegare i dirigenti archeologi, architetti, storici d’arte, nel limbo dei consulenti scientifici, attribuendo a un amministrativo-manager la potestà di firma, cioè di decisione finale, quindi in ultima istanza, anche di scelta delle cose da farsi, cioè della politica culturale dei singoli istituti. Il problema è tuttora aperto. Alla tendenza della maggior parte dei dirigenti-tecnici di considerare il bene culturale come una proprietà esclusiva degli studiosi a esso preposti e di rifiutarne, conseguentemente, la pubblicizzazione, si deve la mancanza, nel nostro Paese, d’una sua cultura diffusa, capace di convogliare, verso il patrimonio il pubblico interesse; il che avrebbe necessariamente fatto affluire cospicui finanziamenti, nella doverosa constatazione che i beni culturali siano – e debbano anche esser ritenuti – un bene pubblico, un bene di consumo culturale. […]