Italiani nel Dodecaneso Obiettivo su...

Archeologia Viva n. 62 – marzo/aprile 1997
pp. 66-70

di Attilio Mastrocinque

Fra il 1912 e il 1948 l’occupazione italiana delle “dodici isole” dell’Egeo orientale conobbe nella ricerca archeologica e nel restauro dei monumenti un aspetto di alto valore culturale riconosciuto e apprezzato anche dal successivo governo greco

Nel 1993-94, a Rodi, presso il castello del Gran Maestro, è stata allestita la prima mostra fotografica su esplorazioni, scavi, restauri e progettazione archeologica degli italiani nel Dodecaneso. Lo scorso settembre si è chiusa a Roma, al Museo delle Terme di Diocleziano, una seconda mostra sull’argomento; una terza sta per aprire i battenti ad Atene. Perché tanto interesse per l’archeologia italiana nelle solari isole dell’Egeo sudorientale? La risposta sta nella storia politica e culturale del Dodecaneso stesso.

Conquistate dall’Italia durante la guerra italo-turca del 1911-1912, le isole del Dodecaneso, dal punto di vista archeologico, erano sostanzialmente terreno vergine. La Scuola archeologica italiana di Atene, da poco costituita, inviò, subito dopo la conquista, degli studiosi affinché esplorassero il territorio di Rodi e poi delle altre isole. Tra il ’14 e il ’24 la missione italiana fu diretta da Amedeo Maiuri, al quale si debbono moltissimi lavori di scavo e tutela; partito il Maiuri alla volta di Pompei, la Missione si trasformò in una Soprintendenza, affidata a Giulio Iacopi, cui succedettero nel ’34 Luciano Laurenzi, nel ’40 Renato Bartoccini e nel ’41 Luigi Morricone. Nel ’27, grazie anche alla sensibilità culturale del governatore Mario Lago, fu fondato l’Istituto storico-archeologico di Rodi FERT (il nome è formato dalle iniziali Fortitudo Eius Rhodum Tenuit) e si intensificò l’attività di scavo e di studio su quella moltitudine di monumenti che ancor oggi si possono ammirare a Rodi e a Còo.

Universalmente conosciuta è l’opera di ricostruzione della città fatta edificare dall’ordine dei Cavalieri di S. Giovanni, ma non meno importante fu il lavoro degli archeologi italiani, attestato dai monumenti messi in luce e dai musei costituiti, nonché dalla mole imponente di pubblicazioni scientifiche che videro la luce soprattutto tra gli anni Venti e Trenta. Proprio la fine degli anni Trenta fu contraddistinta da imponenti restauri dei monumenti archeologici, volti anche a glorificare il regime fascista, sotto il governatorato di Cesare de’ Vecchi. Ma gli archeologi riuscirono spesso a contenere nei limiti del giusto o del tollerabile gli interventi integrativi. Anche quando si decise di trasferire alcuni mosaici dall’abitato di Còo ai musei o al castello del Gran Maestro di Rodi, sede del governatore, gli archeologi scelsero le opere che in ogni caso avrebbero dovuto essere rimosse, o quelle più danneggiate, che furono restaurate da maestri dell’Opificio fiorentino delle pietre dure.

Per molti aspetti fu apprezzabile l’opera di quegli studiosi, ai quali si deve non solo la conoscenza, ma anche la tutela dei monumenti più importanti del Dodecaneso; un lavoro che forse trova pochi confronti in quel periodo sullo stesso suolo italiano. In particolare, ancor oggi si deve al piano regolatore di Còo, a cui collaborarono i migliori fra i nostri archeologi, se le aree di maggiore interesse storico sono diventate giardini o parchi archeologici. Infatti, dopo il terremoto che distrusse Còo nel ’33, la città risorse con criteri molto moderni, che permettevano alle antiche vestigia di convivere con l’abitato nuovo. […]